Il consuntivo dell’andamento dell’occupazione nel corso del 2023 contenuto nel bollettino Istat relativo al 4° trimestre è lusinghiero. Crescono gli occupati, circa mezzo milione in più rispetto all’anno precedente, le ore lavorate e la qualità dei rapporti di lavoro. Tuttavia, le buone performance accumulate negli ultimi due anni non hanno impedito all’Italia di retrocedere all’ultimo posto della graduatoria europea per il tasso di occupazione, che rimane distante di 9 punti dalla media dei Paesi dell’Ue.
Nel frattempo molte delle letture delle criticità del nostro mercato del lavoro sono state smentite dai fatti. È stata smentita la previsione dell’ondata dei licenziamenti in uscita dal blocco disposto durante la pandemia. I protagonisti delle Grandi dimissioni volontarie, frutto della fantasia di commentatori improvvisati, erano semplicemente dei lavoratori che hanno colto l’occasione della forte ripresa della domanda per migliorare le proprie condizioni accettando nuove offerte di lavoro. Un’altra leggenda smentita è quella dei posti che aumentano ma solo perché a tempo determinato e a part-time. Negli ultimi due anni i rapporti a tempo indeterminato e full time sono aumentati più del saldo occupazionale, a discapito di quelli a termine.
Con molte difficoltà si stanno aggiornando le letture del nostro mercato del lavoro. A partire dalla presa d’atto della domanda di lavoro da parte delle imprese che non trova lavoratori disponibili per tutte le tipologie dei profili professionali e della costante riduzione della popolazione in età di lavoro per motivi demografici. Novità assolute per il nostro mercato del lavoro e che rappresentano una condizione ideale per offrire risposte a un numero consistente di persone disoccupate o inattive, per aumentare il tasso di occupazione delle donne e dei giovani under 34 anni, per aumentare l’impiego e i redditi da lavoro ufficiali dei lavoratori sottoccupati.
Queste opportunità non possono essere sfruttate in modo adeguato se continua ad aumentare la quota del mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro dovuta all’impatto delle nuove tecnologie sulle professioni e sulle organizzazioni del lavoro, e se non viene adeguatamente compensata l’uscita dal mercato del lavoro dei lavoratori anziani per motivi di pensionamento che risulta di gran lunga superiore rispetto al potenziale ingresso dei giovani in uscita dai percorsi scolastici.
Negli ultimi due anni la percentuale della difficoltà di reperimento di lavoratori competenti e disponibili è aumentata dal 32% al 48% dei profili richiesti dalle imprese. Le implicazioni pratiche sono evidenti: entro il 2035 si rende necessario rimpiazzare oltre la metà della nostra popolazione attiva e, nel contempo, sarà necessario aggiornare o riconvertire le competenze della gran parte dei lavoratori che rimangono attivi.
La stima del fabbisogno di sostituzione dei lavoratori anziani nei prossimi 5 anni è superiore ai 3 milioni di lavoratori. Ogni anno la mobilità lavorativa, ovvero il numero delle persone che per propria scelta o per l’involontaria perdita del posto di lavoro sono alla ricerca di nuove opportunità lavorative, coinvolge mediamente più di 5 milioni di individui.
Ci stiamo attrezzando per affrontare questi fabbisogni?
Il tema fatica a essere assunto come priorità dal complesso della classe dirigente. La carenza delle politiche attive del lavoro non viene evocata per migliorare la qualità delle prestazioni, ma per risarcire i disoccupati con l’aumento della spesa assistenziale e i prepensionamenti dei lavoratori anziani. Buona parte della classe dirigente politica e delle rappresentanze del mondo del lavoro che dovrebbe offrire soluzioni a questi problemi pensa di assolvere il proprio compito facendo l’elenco dei problemi aumentando il tasso delle promesse.
Con le risorse del Pnrr è stato attivato il Programma GOL (Garanzia occupazione lavoratori) che mobilita oltre 5 miliardi di euro, destinati a raddoppiare nei prossimi 6 anni per il concorso delle risorse della nuova agenda dei Fondi sociali europei. Il tasso di utilizzo di queste risorse nel primo biennio di attività del Programma GOL è molto scarso. Ma ancora più preoccupante è la scarsa efficacia degli interventi messi in campo per contrastare le criticità descritte. Il Programma rimane ancorato su alcuni obiettivi generici da raggiungere entro il 2026: la presa in carico da parte dei servizi pubblici per l’impiego di almeno 3 milioni di disoccupati (un numero inferiore a quello annuale dei beneficiari dei sostegni al reddito per mancanza di lavoro e che sono tenuti a sottoscrivere la dichiarazione di disponibilità a partecipare ai percorsi di politica attiva); l’attivazione di 800 mila disoccupati nei percorsi di formazione finalizzati ad aggiornare o riconvertire le competenze professionali (un numero equivalente alle persone che vengono annualmente attivate nei corsi di formazione professionale); la promozione di 200 mila percorsi di inserimento post-scolastico con le modalità duali di formazione e lavoro, che sono pari alla metà del potenziale bacino di uscita dalle scuole secondarie e dalle università di un solo anno.
La governance del Programma è fondata sul mero trasferimento delle risorse da parte dello Stato alle Regioni sulla base di indirizzi concordati e con l’ausilio di modalità inadeguate di coordinamento degli interventi. Il coinvolgimento degli attori privati e privato-sociali (il mondo delle imprese, le Agenzie per il lavoro, gli operatori della formazione, delle istituzioni scolastiche, i fondi interprofessionali promossi dalle parti sociali…) viene previsto a valle delle prese in carico dei disoccupati da parte dei Centri pubblici per l’impiego che ancora risentono delle note carenze di personale.
Spiegate le cause del gap esistente tra le politiche attive e le tendenze reali si tratta di comprendere cos’è necessario fare per ridurre questa distanza. Anzitutto bisogna assumere la soddisfazione dei fabbisogni della produzione e del mercato del lavoro come i veri obiettivi del Programma e da utilizzare per verificare l’efficacia delle misure attivate sulla base degli esiti occupazionali. Il coinvolgimento delle istituzioni formative e degli attori privati e privato-sociali deve avvenire nell’ambito della programmazione e della progettazione degli interventi. Con la condivisione delle informazioni e la promozione di forme più stabili di cooperazione tra i diversi soggetti accreditati per la formazione e per l’intermediazione della manodopera per ampliare le reti dei servizi di orientamento e le offerte formative.
Per sincronizzare i fabbisogni di adeguamento delle competenze con i profili richiesti dalle imprese e per accelerare i tempi dell’inserimento lavorativo è necessario valorizzare la formazione nell’ambito aziendale. Per tale scopo i 15 Fondi interprofessionali promossi dalle parti sociali dovrebbero svolgere un ruolo primario per orientare i fabbisogni e certificare la formazione svolta nell’ambito aziendale. Le informazioni già disponibili per migliorare la programmazione e per facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro non vengono adeguatamente utilizzate. Le criticità non dipendono dalle carenze delle piattaforme tecnologiche, ma dallo scarso interesse degli operatori delle politiche attive a condividere le informazioni perché comportano inevitabilmente anche la verifica dell’efficacia delle prestazioni da loro erogate. L’incapacità di misurare la qualità dei servizi, delle offerte formative e di lavoro offre una spiegazione anche al mancato funzionamento delle sanzioni per i percettori dei sostegni al reddito che disattendono gli obblighi di partecipazione e di accettazione delle proposte di lavoro coerenti con il loro profilo professionale.
Per aiutare il cambiamento servono poche innovazioni normative. A essere indispensabile è una presa di coscienza collettiva dell’evidente impossibilità di far crescere l’economia italiana se non migliora la quantità e la qualità della popolazione attiva.
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