A ore si dovrà decidere come prorogare il blocco dei licenziamenti. L’impasse è oggettiva. Decidere di procedere solo per settori si scontra con il metodo (obbligatorio?) di definire i settori con il codice ATECO. In questo modo si escludono molte imprese che fanno parte della filiera produttiva di un settore economico ma hanno codice diverso.
Bloccare ancora tutto si scontra con l’esigenza di ristrutturazione e di velocità dei settori che già oggi sono in piena ripresa. Tutti i mesi passati non hanno visto nessuno, governi e parti sociali, impegnati a definire un sistema moderno e universale di ammortizzatori sociali indispensabili per gestire l’uscita dall’emergenza ed essere una delle riforme fondamentali per disegnare un nuovo welfare/workfare.
Con l’occasione della scadenza delle pudiche manifestazioni sindacali convocate di sabato si è cercato però di esacerbare il dibattito. Sono così uscite fantomatiche indagini secondo cui il capitale non vedrebbe l’ora di avere mano libera per i licenziamenti per attuare un golpe antidemocratico lasciando in strada lavoratori di mezza età con piene tutele e assumere giovani con stipendi bassi e soprattutto contratti più precari. A parte la sciocchezza di ritenere che esperienza e maggiore produttività non siano più i criteri di scelta delle imprese, ma che siano guidate da logiche politiche, si confessa in questo modo che il sistema di tutele infranto dalla pandemia era già debole e che, in assenza di riforme profonde, non copre più l’attuale platea dei lavoratori.
Si può allora ritenere che la scelta migliore sia per tutti fare finta che non sia cambiato niente e che l’unica difesa sia un ritorno alle regole del passato. Ma se il lavoro non è più il posto, ma un percorso che dura tutto l’arco della vita, le vecchie tutele creano gravi spaccature fra tutelati e non, e soprattutto non garantiscono la vera tutela del valore di ogni singolo lavoratore. Questo valore non è nel costo connesso al licenziamento (logica dell’articolo 18), ma è legato alla sua occupabilità e professionalità, quindi al diritto alla formazione continua che gli assicuri una costante capacità di avere occupazione.
È quindi con un certo sollievo che si è appreso, quasi in contemporanea con le mobilitazioni sindacali, che si sta lavorando finalmente a cercare di calare in un progetto operativo il disegno di nuovi strumenti per le politiche attive del lavoro. È stato definito in questi giorni dal ministro del Lavoro un documento che cerca di definire le linee attuative secondo cui spendere le risorse del Pnrr destinate alle politiche del lavoro. La parte più rilevante, quasi 9 miliardi fra risorse europee e nazionali, è destinata all’avvio delle politiche attive del lavoro, sia perché è una delle riforme di base previste dal Pnrr, sia per l’importanza politica che assume nell’ambito del ridisegno del welfare e degli ammortizzatori sociali.
La parte principale è rappresentata dall’attuazione di GOL. Questa definizione, Garanzia per l’Occupabilità dei Lavoratori, introdotta nell’ultima Legge di bilancio presentata dal Governo Conte-2, introduce a livello nazionale un servizio di politiche attive che prevede per i disoccupati una presa in carico dei servizi al lavoro, la definizione di un patto di servizio che preveda quanto ritenuto necessario (orientamento, formazione, ecc.) per trovare una nuova occupazione.
Tale misura sarebbe destinata principalmente alla disoccupazione femminile, ai Neet e ai lavoratori svantaggiati. Partirebbe quindi rivolta alle fasce più deboli della disoccupazione, ma, con l’aggiunta di risorse prese da altri strumenti previsti per la lotta alla disoccupazione, può diventare il modello di gestione delle transizioni da lavoro a lavoro per tutti coloro che necessitano di sostegno in presenza di crisi aziendali.
Questo è il quadro entro cui il Governo cercherà di definire, al tavolo di confronto con le regioni che restano responsabili delle politiche del lavoro e della formazione, il modello nazionale di politiche attive del lavoro. Da parte governativa vi è la disponibilità a rimettere mano ai livelli essenziali delle prestazioni, la base di servizi che deve essere assicurata su tutti i territori, per semplificarne la definizione e ottenere così uno sviluppo più unitario del sistema di servizi da parte di tutte le regioni.
L’ideale sarebbe impostare il sistema come si è fatto per quello sanitario. Partire dalla definizione di servizi e strutture che assicurino il diritto a essere aiutato nelle difficoltà della vita lavorativa (affermazione reale del diritto al lavoro costituzionale) cui poi le regioni possono aggiungere modelli locali di implementazione.
In questo aiuterebbe una valutazione di quanto alcune regioni hanno fatto in questi anni. Dall’avvio di un modello di servizi al lavoro mutuato dai migliori standard europei avviato per prima dalla Lombardia, ai modelli più recenti, che hanno fatto tesoro delle esperienze precedenti, di Emilia Romagna e Veneto.
Da queste esperienze escono due punti di cui tenere conto nell’avviare la discussione per un modello nazionale. La centralità va assegnata alla persona e ai suoi bisogni e non al servizio e alla sua capacità. Solo così si potrà mantenere un servizio flessibile capace di adattarsi alla particolarità dei talenti di ciascuno e non un’offerta standardizzata che sarebbe presto obsoleta. In secondo luogo, bisogna scegliere come coinvolgere da subito la rete di agenzie private accreditate e autorizzate per avere una rete in grado di rispondere alla grande domanda di aiuti che arriverà a breve. Implementare la rete pubblica dei Centri per l’impiego aumentandone gli uffici e i dipendenti è utile. Ma se i CPI restano uffici destinati a svolgere più le pratiche amministrative che servizi di politiche per l’incrocio domanda-offerta di lavoro non saranno utili per fare decollare GOL, né qualunque iniziativa si voglia realizzare.
Centralità della persona e modello sussidiario orizzontale possono essere la base per disegnare velocemente la svolta nelle politiche attive che si attende da troppo tempo.
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