L’importanza delle politiche attive del lavoro, intese come l’insieme dei servizi di orientamento, dei percorsi di formazione e degli incentivi per le assunzioni che possono agevolare l’incontro tra la domanda e l’offerta offerta di lavoro, ritorna puntualmente in auge in coincidenza delle proposte di riforma degli ammortizzatori sociali o dei sostegni al reddito di varia natura l’ultimo dei quali il Reddito di cittadinanza.
Così da rendere fondato il sospetto che l’argomento venga utilizzato come pretesto per continuare a mantenere in atto le prestazioni erogate in condizioni di emergenza, o persino estenderle, per contrastare la povertà, in attesa che “qualcuno” realizzi il miracolo di trovare un lavoro congruo per tutti i disoccupati che beneficiano dei sostegni pubblici.
Cosa che puntualmente non avviene lasciando il resto della truppa, e le persone prive di sussidi che cercano lavoro, abbandonate a se stesse. Nel contempo, per le politiche attive per il lavoro, in particolare per la formazione e per gli incentivi per le assunzioni sono stati spesi centinaia di miliardi di euro, almeno 200 nel corso degli anni 2000 tra risorse nazionali ed europee, con risultati del tutto marginali.
Questo andazzo è in corso da qualche decennio contribuendo non poco alla crescita della spesa pubblica per le politiche passive del lavoro e più in generale di quella per l’assistenza. E si sta riproponendo, con l’ulteriore aggiunta di 8 miliardi di euro per reggere i costi della nuova riforma degli ammortizzatori sociali proposta nei giorni recenti dal ministro del Lavoro Orlando.
In questo caso, la promessa di potenziare le politiche attive del lavoro viene confortata da un discreto gruzzolo di risorse, circa 6 miliardi, derivanti per la gran parte dai nuovi fondi europei del Pnrr. Sul come si intendono utilizzare queste risorse non sono stati forniti documenti ufficiali. Le intenzioni le troviamo esplicitate in una bozza elaborata dal ministero del Lavoro e dall’Anpal a seguito di alcuni incontri effettuati con il coordinamento delle Regioni che sulla materia dei servizi per il lavoro e per la formazione hanno competenze pressoché esclusive.
Da questa documentazione si evince l’intenzione di veicolare la quota più rilevante delle risorse disponibili verso due progetti previsti dalla legge nei tempi recenti, il GOL (Garanzia Occupabilità lavoratori) e il PNC (Piano nuove competenze), fissando alcuni obiettivi da raggiungere entro il 2025: 3 milioni di disoccupati (il 75% dei quali donne, giovani, disoccupati di lunga durata) da inserire o reinserire al lavoro con progetti, 800 mila da coinvolgere in percorsi di formazione mirati ad aumentare le competenze e l’occupabilità degli interessati, 135 mila giovani da avviare in percorsi duali di formazione.
A questi obiettivi relazionati al mercato del lavoro ne vengono affiancati altri finalizzati a potenziare strutturalmente i servizi pubblici per l’impiego e gli strumenti a disposizione per migliorare la qualità delle informazioni sul mercato del lavoro e sulle persone, sulla base di livelli essenziali delle prestazioni (ad esempio, la presa in carico dei beneficiari dei sostegni al reddito entro i primi 4 mesi), descritti con l’ausilio degli approcci teorici e dei linguaggi internazionali i più aggiornati sulla materia.
Nulla di nuovo sotto il sole, e già visto nell’occasione della messa a punto dei due più importanti programmi di politica attiva del lavoro avviati negli anni recenti, la Garanzia giovani e il Reddito di cittadinanza.
Il fatto che la messa a punto del nuovo programma non sia preceduta da una verifica critica dei risultati riscontrati dai programmi precedenti, e priva di un’analisi aggiornata delle condizioni e del fabbisogni del mercato del lavoro, non è di buon auspicio. Soprattutto se si tiene conto dei numeri crescenti di beneficiari dei sostegni al reddito, dei disoccupati di lunga durata e delle persone scoraggiate nella ricerca di un lavoro, che fanno assimilare i numeri citati negli obiettivi del programma a una sorta di pannicello caldo introdotto per alleviare le sofferenze. L’idea stessa di utilizzare alcuni progetti per cercare di rimediare le carenze del sistema, e l’utilizzo inefficiente della gran parte delle risorse nazionali ed europee, appare sbagliata. Esemplare il fatto che il tema dell’integrazione tra i percorsi scolastici e formativi con il mercato del lavoro, che svolge un ruolo dominante nelle politiche attive del lavoro dei Paesi sviluppati, venga ridotto al rango di un progetto riservato a 135 mila giovani nel corso dei prossimi 5 anni (meno del 5% della potenziale platea).
Il modello della governance per la gestione delle risorse, in particolare il trasferimento delle stesse alle Regioni che le gestiscono in piena autonomia sulla base di indirizzi condivisi, rimane sostanzialmente quello dei precedenti programmi. Avviati in assenza di sistemi informativi collaudati e condivisi, contraddistinti dalla mancata integrazione tra le attività dell’Inps nella veste di soggetto erogatore dei sostegni al reddito con i Centri per l’impiego, dall’impossibilità di questi ultimi di svolgere l’impegnativo ruolo di dominus del sistema che viene loro periodicamente assegnato (la presa in carico delle persone, la redazione dei progetti personalizzati, l’analisi del territorio, il collegamento con i servizi per l’impiego privati e gli enti di formazione, l’attivazione delle sanzioni per i beneficiari dei sostegni al reddito che rifiutano le offerte di lavoro).
Con l’avvio del Reddito di cittadinanza era stato previsto un programma di potenziamento dei 550 Centri pubblici per l’impiego, con l’innesto di 11 mila nuovi funzionari con risorse statali affidate alle Regioni. Lo stato di avanzamento delle assunzioni è di poco superiore al 10%. Condizione che impedisce all’origine di mettere in campo le attività promesse dato che nei prossimi anni le energie dovrebbero essere dedicate all’attività di potenziamento e di addestramento degli organici. Che fine faranno i 2.500 navigator assunti a termine dall’Anpal è diventato un argomento tabù, e che non viene nemmeno citato nel documento in questione.
In questa situazione un ruolo lo potrebbero svolgere gli operatori privati dell’intermediazione e le agenzie di outplacement per il ricollocamento di gruppi di lavoratori. L’assegno di ricollocazione, lo strumento introdotto per consentire ai beneficiari dei sostegni al reddito di avere una dote finanziaria da destinare ai servizi di intermediazione privati, agli enti di formazione e alle imprese che li assumono, sulla base dei risultati, viene liquidato in poche battute (comporta sovrapposizioni e confusione rispetto altri incentivi statali e regionali, non è una misura sufficiente…) e non si capisce nemmeno se e come debba essere utilizzato nel futuro per tale scopo.
Soprattutto vengono sostanzialmente ignorate le parti sociali che dovrebbero svolgere un ruolo fondamentale nell’individuazione dei fabbisogni di intervento, per le attività contrattuali volte ad agevolare l’inserimento dei soggetti vulnerabili, e in quanto gestori degli enti bilaterali per la formazione continua, i sostegni al reddito, e i programmi di ricollocazione dei lavoratori coinvolti nelle crisi aziendali e settoriali.
Il tema del coinvolgimento delle imprese e degli interventi sui bacini territoriali, che dovrebbe costituire la premessa del programma, viene ripreso nella parte finale del documento citato (sotto la voce Patti territoriali) a valle del percorso burocratico di trasferimento delle risorse dallo Stato alle Regioni e, per buona parte di queste, tramite il ruolo primario che dovrebbero svolgere i Centri pubblici per l’impiego.
Singolare il fatto che nemmeno le parti sociali si pongano il problema. Tutte dedicate, per ragioni diverse, alla priorità di ampliare la platea beneficiari dei sostegni al reddito e della durata temporale degli stessi, caricando i costi sullo Stato. Nemmeno per cercare di offrire risposte alle imprese che hanno difficoltà a reperire manodopera anche per i profili di media e bassa qualificazione. Il tema di come rafforzare le condizionalità per i beneficiari dei sostegni al reddito e delle sanzioni per coloro che rifiutano di accettare le offerte di lavoro congrue, non viene nemmeno richiamato.
Tutte queste criticità, anche nella migliore ipotesi di un loro graduale superamento, rendono improbabile il concorso delle politiche attive del lavoro a ridurre il numero dei beneficiari dei sostegni al reddito e del potenziale delle persone da assistere con programmi efficaci nel breve e medio periodo. E qui il cerchio si chiude: in attesa delle politiche del lavoro chiamate a risolvere il problema diventa necessario aumentare i sostegni al reddito e delle persone pagate per non lavorare.
In Italia le politiche del lavoro potrebbero essere assimilate alla Sora Cecilia, la zitella ben dotata finanziariamente, che tutti dicono di volere, ma che nessuno si piglia.
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