In questi tempi di crisi pandemica, in questi giorni di disastri alluvionali che hanno colpito il cuore storico dell’Europa franco-germanica, sotto le piogge battenti che hanno fatto saltare tutte le artificiali trappole in cui la rendita fondiaria ha imprigionato fiumi e torrenti, in questi giorni in cui si imputa al solo cambiamento climatico la distruzione di territori devastati dalla rendita fondiaria e dalla mineralizzazione di un’agricoltura capitalistica forsennata, ebbene, in questi giorni e in questi mesi in cui la solidarietà dovrebbe essere il messaggio che promana dall’Unione europea e dai suoi Stati, ebbene, in questi giorni e in questi tempi, le divisioni e le polemiche politiche sono sempre più all’ordine del giorno.
Con l’adesione all’Ue di ben 10 nuovi Stati membri nel 2004, seguiti da Bulgaria e Romania nel 2007, si pensava che fossero definitivamente sanate le divisioni politiche tra “Europa orientale e occidentale”, come allora dicevano i più. Ma, mentre una profonda crisi finanziaria colpiva l’economia mondiale nel settembre 2008, il Trattato di Lisbona del 2007, ratificato nel 2009 da tutti i Paesi membri, segnalava il fallimento del disegno che si perseguì in quegli anni di dare all’Europa una Costituzione. Nonostante il fallimento di quell’obbiettivo si continuava tuttavia la politica di adesione tramite i trattati: il 1° maggio 2004 otto nazioni dell’Europa centrale e orientale (Cechia, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia e Slovenia) entrarono a far parte dell’Ue, ponendo fine alla divisione dell’Europa decisa 60 anni prima dalle “grandi potenze” alla Conferenza di Yalta in Crimea.
Tutti codesti Stati avevano firmato il 29 ottobre 2004 un trattato in cui si affermava il principio di dar vita a una “Costituzione europea” a cui dovevano aderire i 25 Stati firmatari del trattato. Ma i referendum organizzati in Francia e nei Paesi Bassi respinsero il testo della Costituzione nel giugno 2005: i leader dell’Uw dichiararono allora un “periodo di riflessione” che dura di fatto sino a oggi.
La convivenza di diversi orientamenti giuridici e ideali, politici e morali dovrebbe essere il fondamento di quella straordinaria forza storica dell’Europa che è sempre stato il suo pluralismo e la sua diversità culturale, istituzionale, politica e filosofica. La storia non può essere livellatrice: è solo la volontà di gruppi oligarchici e tendenzialmente dittatoriali che tende a livellare la storia. La tragica vicenda del “secolo breve europeo” dimostra questo assunto. Lo dimostra anche oggi.
Qual è stata la reazione della Francia dinanzi al terrorismo islamico quando si è ricorso e si ricorre tutt’ora alla “costituzionalizzazione” dello stato d’emergenza?
È bene ricordare che la Costituzione della V Repubblica contempla due altri regimi speciali. Uno è quello dell’articolo 16 della Costituzione, relativo ai poteri eccezionali che il capo dello Stato può assumere (dopo aver sentito il primo ministro, i presidenti delle Camere e il Consiglio costituzionale) quando le istituzioni della Repubblica, l’indipendenza della nazione, l’integrità del suo territorio o l’esecuzione degli impegni internazionali siano minacciati in maniera grave e immediata e quando risulta interrotto il regolare funzionamento delle istituzioni. Tale articolo è stato modificato dalla riforma costituzionale del 2008 che ha introdotto una forma di controllo parlamentare in caso di applicazione prolungata della norma succitata.
L’altro dispositivo costituzionale speciale è quello dell’articolo 36 Cost. che regola lo “stato d’assedio” (della durata anch’esso di dodici giorni, prorogabili su autorizzazione del Parlamento), applicabile in caso di pericolo imminente derivante da una guerra straniera o da un’insurrezione armata e che prevede l’attribuzione di poteri eccezionali alle autorità militari.
Il presidente Hollande aveva – ai tempi degli orribili attentati dei fondamentalisti islamici – sottolineato l’impossibilità di fare ricorso a questi regimi speciali non adatti alla situazione, invocando, invece, un “regime costituzionale in grado di gestire la lotta”, richiamando in tal senso le riforme degli artt. 16 (“Poteri straordinari del Presidente in caso di minaccia allo Stato”) e 36 (“Stato di guerra e interventi armati all’estero”). E attualmente la Francia del presidente Macron continua a far ricorso a regimi eccezionali anche in caso di divisioni profonde politiche che non consentono una soluzione parlamentare dei conflitti: mi riferisco alla legislazione sul lavoro, per esempio, e al dibattito in corso sulle vicende africane che ha diviso non solo l’opinione pubblica, ma lo stesso establishment francese, con un pericoloso confronto tra le istituzioni stesse della Repubblica, sin nel seno delle forze armate.
Dinanzi a questa tormentosa vicenda francese vi è stata e vi è un’attenzione e un rispetto profondo da parte delle stesse istituzioni Ue e dell’opinione pubblica europea o di ciò che di essa rimane. Tutta diversa la questione rispetto al travaglio che attraversano due grandi e tragiche nazioni che hanno aderito all’Ue e ai suoi trattati dopo gli anni della dittatura sovietica e del suo imperialismo. La Polonia è stata il cuore di quell’Europa sempre divisa tra la Germania e la Russia e su cui Rousseau scrisse quelle pagine indimenticabili dedicate alla possibilità di redigerne una Costituzione che superasse le divisioni aristocratiche; l’Ungheria, dal canto suo, è stata quella vicenda nazionale e culturale che solo la penna e la testimonianza di martire e di grande pensatore di István Bibó ha potuto ritrarre in tutta la sua complessità e tragicità.
Alla radice di quei processi che hanno profondamente differenziato la vita democratica polacca e ungherese di questi ultimi trent’anni vi sono quelle radici storiche che Bibó ha individuato e che oggi tutti hanno dimenticato, con conseguenze gravissime. In Europa centrale i concetti di nazione e nazionalismo hanno un significato diverso da quello imperante nell’Europa occidentale o negli Stati Uniti e questo perché l’unicità del caso centroeuropeo rimane intatta, Ue o non Ue: non ricomposta né dall’allargamento dell’Unione Europea, né da quello della Nato alla metà degli anni duemila.
È incontestabile che negli ultimi anni l’Ungheria e la Polonia abbiano optato per un modello di sviluppo politico illiberale e con evidenti tratti di autoritarismo. All’inizio degli anni Novanta del Novecento ben si comprese – ma eravamo molto pochi – che la trasformazione del mondo ex comunista non avrebbe significato il trionfo della democrazia liberale, del capitalismo e della globalizzazione. E questo in primo luogo perché la rapidità con cui la modernizzazione capitalistica aveva investito le società ex sovietizzate ha avuto conseguenze inevitabili sulla mentalità collettiva, con la frattura tra le classi urbane, più aperte e pronte ad abbracciare i cambiamenti, e le classi rurali ostili alle “novità” dell’occidente, quali la tutela delle minoranze, i “diritti delle persone Lgbt”, il “femminismo”, le libertà civili.
Del resto, un intellettuale profondo e acuto come Kołakowski scrisse nel 1992 che un’ondata di passioni nazionaliste e di odio stava attraversando l’Europa post-comunista e questo perché quando la morsa dei regimi iniziò a sfaldarsi, la retorica nazionalista trionfò con particolare intensità nella Romania di Nicolae Ceaușescu, nella Polonia dei gemelli Kaczynski e in Albania. Fu il “nazionalcomunismo”, in cui le manifestazioni di antisemitismo e xenofobia caratterizzavano l’ascesa del nazional-conservatorismo in Europa centrale.
Ma alla base di tutto ciò vi è, in questa parte d’Europa, la nascita degli Stati-nazione secondo un percorso diverso da quello occidentale: prima sono nate le comunità culturali e linguistiche, e solo in un secondo momento gli Stati nazionali. E questo processo è avvenuto in zone dominate da grandi imperi plurinazionali, plurilinguistici e pluriconfessionali come quello austroungarico, quello zarista e quello ottomano, dove la definizione dell’identità era estremamente fluida e la creazione di comunità nazionali e l’instaurazione di confini che le delimitassero è stato un compito destinato a incontrare ostacoli e battute d’arresto e che si è sviluppato tra violenze e conflitti infiniti.
Solo István Bibó comprese, come dicevo, nel Suo Miseria dei piccoli Stati dell’Europa orientale, che le difficoltà nella “formazione e nella stabilizzazione delle nazioni in questa regione” d’Europa avrebbero dato vita a una “deformazione della cultura politica” da cui sarebbe derivato “il tratto più caratteristico dello squilibrio nella psicologia politica in Europa centrale e orientale: la paura esistenziale per la propria comunità”. Il timore per la sopravvivenza per la propria comunità va storicamente di pari passo con una mobilitazione nazionalista costante e in questo clima la cittadinanza diventa ricettiva verso “ogni tipo di teoria o ideologia astrusa e inverosimile”, e soprattutto si verifica la spaccatura tra democrazia e sentimento nazionale, con l’emergere della convinzione che la prima sia d’ostacolo al secondo. Se l’analisi di un protagonista del riscatto democratico dell’Ungheria sotto il tallone sovietico ha un senso, ben si comprende come le proposte dell’Ue non possono che alimentare i mali storici delle nazioni dell’Europa centrale e – io aggiungo – di una Polonia sempre dilaniata dalle contraddizioni storico-politiche del suo porsi a mezzo tra le due forze centripete fondamentali dell’Europa orientale: la Germania e la Russia.
Continuando nella politica dell’incomprensione della storia e con la politica delle sanzioni, l’Ue e i suoi stolidi dirigenti non faranno che approfondire non il pluralismo ma le divisioni europee, con l’inevitabile conseguenza di nuove profonde lacerazioni che non faranno che alimentare l’angoscia dell’isolamento della Russia e spingerla verso l’alleanza con la Cina.
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