Centomila persone in piazza a Varsavia a favore della Polonia nell’Unione Europea dopo lo strappo che si è aperto in seguito a una sentenza della Corte costituzionale polacca, che ha stabilito come alcuni regolamenti della Ue non siano compatibili con la Costituzione nazionale. Per Varsavia “la Carta dello Stato ha primato sul diritto europeo”. Immediate e dure le risposte dall’Europa. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha minacciato: “Reagiremo”.



Il presidente dell’europarlamento, David Sassoli, ha rincarato: “Non permetteremo che i Trattati siano violati”. E la Francia parla di “un’uscita di fatto”. Esiste davvero il rischio di una “Polexit legale”? Può uno Stato nazionale rivendicare una supremazia sul diritto europeo? E ora cosa potrebbe succedere? Lo abbiamo chiesto a Lorenzo Federico Pace, professore di diritto dell’Unione Europea presso l’Università del Molise e autore del recente libro La natura giuridica dell’Unione europea: teorie a confronto. L’Unione ai tempi della pandemia (Cacucci, 2021).



Bruxelles rivendica il primato del diritto Ue. Su quali basi poggia?

La base giuridica, se così si può dire, è facilmente comprensibile, quasi banale. Il primato del diritto della Ue rispetto ai diritti nazionali si basa sulla necessità che tale diritto sia efficace in tutti gli Stati membri e allo stesso momento al fine di ottenere un’uniformità di regolamentazione su tutto il territorio continentale. Il principio deriva dal fatto che, nel momento in cui uno Stato firma assieme ad altri Stati un Trattato in cui si decide di coordinarsi assieme per raggiungere alcuni obiettivi, lo Stato sceglie di attribuire a questo nuovo ente, la Ue, competenze e poteri da esercitare per emanare misure normative.

Uno Stato decide anche di non emanare norme nazionali in contrasto con quanto previsto dal Trattato stesso?

Esatto. Se lo Stato decidesse di non rispettare quanto stabilito dal diritto europeo sarebbe lecito chiedersi: che ci sta a fare quello Stato nell’Unione? Nel caso dell’Unione, però, gli Stati membri per raggiungere gli obiettivi definiti nei Trattati hanno creato un organo, la Corte di giustizia, che vanta una competenza eccezionale.

In cosa consiste questa competenza della Corte di giustizia?

Tutti gli Stati, Polonia compresa, firmando il Trattato istitutivo della Ue, hanno attribuito alla Corte di giustizia la competenza esclusiva, centralizzata e vincolante dell’interpretazione dei Trattati.

È possibile che si arrivi a uno scontro più aperto con la Corte costituzionale o con il governo polacco?

Davanti a una sentenza della Corte di giustizia uno Stato non può che adeguarsi. Per uno Stato dell’Europa continentale non vi è “di fatto” la possibilità di uscire dall’Unione. Infatti l’Ue costituisce una “Comunità di destino” e uno Stato dell’Europa continentale non può uscire, “di fatto” non “di diritto”, dall’Ue perché l’Unione rappresenta un elemento costitutivo della stessa stabilità politica dei singoli Stati membri.

L’Unione può quindi imporre alla Polonia, in qualità di Stato membro, di adeguarsi? E in che modo?

L’adeguamento avviene, appunto, con la procedura d’infrazione disciplinata dai Trattati. Attenzione però: i soggetti firmatari dei Trattati non sono i giudici, sono gli Stati tramite i governi legittimamente eletti. Dunque, per l’Ue è irrilevante quale che sia il soggetto o l’atto che viola il diritto dell’Unione Europea – una Regione, una legge, un provvedimento amministrativo… –, a doverne rispondere è sempre lo Stato. In questo caso l’ipotetica violazione, perché non è detto che la procedura d’infrazione si concluda con una “condanna”, anche se è probabile, è a carico dello Stato polacco e non della Corte costituzionale polacca.

La procedura d’infrazione segue il solito iter che abbiamo imparato a conoscere quando un paese sfora i parametri sul debito e sul deficit?

Sì, segue una procedura similare e disciplinata dagli articoli 258 e 259 dei Trattati. La Commissione invia un parere motivato allo Stato membro, chiarendo i motivi in base ai quali ritiene che lo Stato abbia violato i suoi obblighi. Poi inizia una procedura “politica” di confronto tra Commissione e Stato membro al fine di accertare i fatti e trovare una soluzione. Nel caso in cui si arrivi a confermare l’esistenza della violazione del diritto dell’Unione e lo Stato non accetti di adeguarsi, la Commissione può adire la Corte di giustizia, la quale dovrà stabilire se la Commissione è pervenuta a una conclusione corretta o meno. Se la conclusione è corretta, lo Stato è obbligato a trovare una soluzione e se non si adegua entro i termini fissati dalla sentenza della Corte, la Commissione può iniziare una seconda procedura uguale alla prima. Con una differenza: alla fine la Corte, su proposta della Commissione, può imporre allo Stato sanzioni pecuniarie che possono essere forfettarie e/o giornaliere, cioè per ogni giorno di inottemperanza, affinché lo Stato si adegui alla sentenza ed elimini la violazione.

Lei accennava prima, e nel suo ultimo libro vi ritorna più volte, al concetto di Ue come “comunità di destino”. Che cosa intende con questa espressione?

L’idea dell’Unione come “Comunità di destino” parte dal presupposto che l’attuale fase del millenario processo di sviluppo politico-istituzionale del continente europeo impone agli Stati dell’Europa continentale di “stare insieme”. Questo determina la necessità per gli Stati di individuare soluzioni comuni alle sfide proposte dal nostro periodo storico, all’interno di una “comunità di diritto”. In altre parole, in Europa non c’è più la possibilità per gli Stati di organizzare i propri interessi nazionali in altro modo se non tramite un ente sovranazionale come l’Unione Europea, pena la rinnovata “instabilità politica” del continente europeo.

Qual è stato l’elemento che ha determinato questa necessità?

Questo cambiamento di prospettiva deriva dalla nascita, alla fine del XIX secolo, della “contraddizione fra Stato e mercato” nel continente europeo, cioè dalla nascita della globalizzazione. Cioè una situazione dove i mercati non erano più esclusivamente di dimensione nazionale, ma sovranazionali. A fronte di questo i mercati non erano più “controllabili” dai singoli Stati europei, rimasti quindi di dimensione “locale”. È stato quindi l’inizio della globalizzazione che ha creato una situazione in cui per gli Stati continentali europei non era più possibile risolvere le proprie controversie tramite lo scontro bellico. È questa nuova situazione, tra l’altro, che ha portato in quel periodo la Germania nazista a tentare tragicamente di estendere il proprio controllo su altri Stati europei, anzi su quasi l’intero territorio continentale europeo, fino alla sua sconfitta.

E questa nuova situazione che conseguenze politiche ha determinato?

Questa contraddizione tra Stato e mercato ha determinato la crisi degli Stati nazionali in Europa, come evidenziato dalla Seconda guerra mondiale, ed ha determinato inoltre quello che potremmo chiamare il fallimento politico del continente europeo. Durante il secondo conflitto mondiale gli Stati europei non sono riesciti a ritrovare una situazione di pace se non dopo l’intervento di un paese addirittura esterno al continente europeo, gli Stati Uniti. Questo mostra come gli Stati dell’Europa continentale, se non organizzati o capaci di cooperare fra loro in una cornice di diritto, causano situazioni di instabilità politica continentale.

Nel corso degli anni abbiamo assistito a una evoluzione e trasformazione degli obiettivi dell’Unione Europea?

Il processo d’integrazione europea ha due principali obiettivi, già chiari il 9 maggio 1950 nella “dichiarazione Schuman”, cioè quando la Francia e la Germania decisero di creare un mercato comune del carbone e dell’acciaio istituendo la Ceca, Comunità di cui l’Italia costituisce uno degli Stati fondatori. Questi due obiettivi sono gli stessi che ritroviamo ora, dopo settant’anni, individuati nell’articolo 3 dei Trattati: garantire la stabilità politica degli Stati e del continente europeo, cioè la pace, e aumentare la qualità della vita dei cittadini europei, cioè il benessere, nel contesto di un’Unione che presenta valori comuni.

Come la pandemia ha cambiato o potrebbe cambiare il processo di integrazione europea?

A cambiare in questi 70 anni non sono stati gli obiettivi dell’Unione, ma le sfide che la Ue ha dovuto affrontare, e i mezzi che ha dovuto individuare, per risolvere queste sfide e garantire quindi i due obiettivi sopra individuati. Ad esempio oggi, proprio al fine di risolvere la tragica sfida della pandemia, l’Unione e gli Stati membri hanno dovuto “inventare” nuovi strumenti come il Next Generation Eu, cioè un grande fondo non più ripartito in base alle dimensioni dei paesi, bensì secondo un principio di solidarietà, in relazione quindi ai danni subiti dall’economia dei singoli Stati membri. E questo spiega perché nell’Unione Europea l’Italia sia il maggior beneficiario della liquidità del Recovery fund.

(Marco Biscella)

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