Il mondo è impegnato a seguire le guerre in Ucraina e Palestina, ma c’è un’altra area nel cuore dell’Europa in cui la situazione è molto delicata. Bosnia e Serbia, infatti, stanno vivendo un momento delicato, specchio di un periodo particolarmente confuso a livello mondiale, ma con gli stessi protagonisti di altre vicende più seguite dall’opinione pubblica. In Serbia il primo ministro Vučević ha dovuto dimettersi dopo le ripetute proteste di piazza nate da un incidente in cui sono morte 15 persone. Ne è nato un movimento di opposizione ancora in azione.
Nella Repubblica Srpska (Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina), invece, che fa parte della Bosnia, il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik è stato condannato a un anno, facendo esplodere l’insofferenza di questa parte del Paese, che da sempre chiede più autonomia, fino a ipotizzare la secessione.
Due crisi, dice Marco Bertolini, generale della Brigata Folgore e comandante di numerose operazioni speciali in Libano, Somalia, Kosovo e Afghanistan, che rischiano di degenerare e che risentono della contrapposizione tra UE e Russia, di cui la Serbia, pur volendo aggiungersi ai 27, è storica alleata.
A scompaginare tutto, anche qui, ci si è messo Trump, il cui figlio si è recato in visita a Belgrado. Proprio nel weekend, intanto, nella capitale si è tenuta l’ennesima manifestazione contro Vucic: in piazza ci sarebbero state 300mila persone. E si parla già di elezioni anticipate.
Generale, cosa può dirci delle crisi che segnano in questo periodo la Bosnia e la Serbia?
È una situazione che stiamo sottostimando nella sua pericolosità. Non se ne parla perché questi Paesi vengono ritenuti marginali, ma, se facciamo attenzione, c’è tutta una fascia di instabilità che viene proprio dall’Ucraina e arriva fino all’Adriatico e che riguarda la Romania, dove sono state contestate le elezioni, la Bulgaria, dove ci sono dei disordini, fino alla Serbia e alla Repubblica Srpska di Bosnia.
Da dove nascono le tensioni che stanno agitando serbi e serbo-bosniaci?
Siamo in aree russofile per questioni di carattere culturale e religioso: per esempio, la popolazione è ortodossa e non cattolica come in Croazia. Soffrono la tensione di essere incapsulate in una regione, i Balcani, in cui rappresentano una minoranza. I serbi hanno perso la guerra in Bosnia e sono stati criminalizzati: il loro presidente, Milošević, è stato processato dalla Corte dell’Aja.
La sorte della Serbia ha un po’ seguito la sorte della Germania dopo la Seconda guerra mondiale. Il Paese non ha più il Montenegro, che gli dava lo sbocco al mare e che avrebbe fatto comodo anche alla Russia, alla ricerca di alternative nel Mediterraneo alla base di Tartus in Siria.
La loro crisi risente anche dei grandi conflitti che stanno segnando questo momento storico?
Queste aree risentono naturalmente della crisi che riguarda il mondo che fa riferimento alla Russia. Il conflitto in Ucraina è sempre stato vissuto dalla Serbia con manifestazioni di simpatia nei confronti dei russi.
E questo in splendido isolamento, perché in questa parte del mondo sono solo loro a farlo. In Serbia si è dovuto dimettere il primo ministro Miloš Vučević per motivazioni in un certo senso surreali: c’è stato un incidente, è caduta una pensilina che ha causato una quindicina di morti, un episodio a partire dal quale sono state organizzate manifestazioni. Una mini-rivoluzione colorata, di fronte alla quale il capo del governo ha dovuto lasciare per evitare che la situazione trascendesse.
Nella Repubblica Srpska, che fa parte della Bosnia, il presidente Milorad Dodik è stato condannato a un anno per non aver rispettato, con le sue decisioni, l’ordine costituzionale. È la spia di un’insofferenza dei serbi di Bosnia che dura da tempo. Dove può portare?
La Bosnia è costituita da due entità: la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Srpska. Quest’ultima, di lingua serba, ha sempre rivendicato una sua autonomia, in virtù di una forte identità. Il suo polo di attrazione è sempre stato Belgrado, che a sua volta si colloca a metà fra due punti di riferimento: vorrebbe entrare nell’Unione Europea, però non può e non vuole mollare la Russia, suo sponsor economico e molto vicina dal punto di vista culturale.
Questa situazione fa sì che Serbia e Repubblica Srpska siano un po’ come vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro. Il problema è che, nei Balcani, impedendo che la guerra arrivasse alle conclusioni dettate dal campo di battaglia, si è creata una situazione di instabilità cronica che adesso pesa molto.
Al di là della protesta interna, la Serbia ha poi sempre il fronte aperto del Kosovo. Come incide questo sull’instabilità dell’area?
I rapporti con il Kosovo rappresentano un grosso problema, ma soffre anche per la perdita del Montenegro, mentre a nord ha la Voivodina, un’altra regione che rischia di staccarsi.
La comparsa di Trump sulla scena mondiale sta cambiando qualcosa anche in questo scenario?
Il figlio di Trump è andato in Serbia. Il presidente americano è un terremoto che sta provocando molti cambiamenti. Il fatto che abbia inviato Donald Trump Junior a incontrare il presidente serbo Vučić è una mossa molto importante, che sta a dimostrare un’attenzione non indifferente per il Paese.
La missione americana in Serbia potrebbe essere il segnale della volontà degli USA di aiutare Belgrado a risollevarsi. La Serbia ha bisogno di qualcuno che la supporti, anche perché, in questo momento, nonostante i legami storici, non può essere aiutata dalla Russia.
La Repubblica Srpska ha chiesto a Trump di appoggiare all’ONU la richiesta della Russia per delegittimare l’altro rappresentante della Bosnia, per rendere meno efficace quindi il controllo sulla Bosnia e lasciare i serbi più autonomi. In questo mondo al contrario, gli USA sono diventati un punto di riferimento anche per i serbo-bosniaci?
In Bosnia la Federazione croato-musulmana ha più peso politico e la Repubblica Srpska è quasi ostracizzata: Trump potrebbe appoggiare anche le sue rivendicazioni, in virtù di questa rinnovata amicizia con Vladimir Putin.
L’area dei Balcani, comunque, non è pacificata, lo dimostra il fatto che ci sia una presenza militare della NATO in Kosovo, che serve a supportare i kosovari contro la Serbia. In una situazione del genere, Trump dimostra attenzione per un Paese che deve essere controllato dall’Alleanza atlantica: vuol dire che si stanno aprendo altre opportunità.
Serbia e Repubblica Srpska sono due aree in cui la situazione può precipitare?
Non c’è ombra di dubbio. La situazione dei Balcani è estremamente delicata. Nonostante la fine della guerra in Bosnia, si è mantenuta una situazione di equilibrio instabile in un Paese che vede la Federazione croato-musulmana guardare all’Occidente, agli USA, alla NATO e alla UE, mentre la Repubblica Srpska ha come punto di riferimento la Serbia e la Russia.
In questo contesto, la UE e l’Italia che ruolo giocano?
L’Italia, purtroppo, non ha giocato il ruolo che avrebbe potuto, visto anche l’impegno dei propri soldati sia in Bosnia che in Kosovo. Gli italiani sono una parte molto significativa del contingente NATO in Kosovo. Per quanto riguarda la UE, non vedo un’azione volta a stemperare la situazione.
La richiesta della Serbia di aggiungersi ai 27 della UE è datata e non sembra procedere. Rimarrà sulla carta?
Belgrado è sospettata di essere troppo vicina a Mosca e l’Unione Europea, per compiacere la NATO, è sempre stata contro la Russia.
Vučić resterà presidente? Le proteste di piazza in Serbia porteranno a qualcosa?
Onestamente non saprei. Può darsi, comunque, che la visita di Trump Junior abbia un impatto anche da questo punto di vista, però la situazione è molto complessa. La crisi in Serbia è il riflesso di una situazione di conflitto molto più ampia che riguarda non solo l’Ucraina. Anche quello che è successo in Romania nasce da un’insofferenza che attraversa questa parte dell’Europa.
(Paolo Rossetti)
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