Davvero finisce tutto così? La demolizione del ponte Morandi, fatto implodere ieri mattina con un’imponente carica di dinamite, non è soltanto una questione legata alla giustizia per una sciagura o all’inizio di una nuova fase di sviluppo per Genova. Le cose, infatti, più stanno in contatto con noi, più diventano eco di quello che siamo. E il ponte Morandi ha accompagnato la storia del nostro paese per più di quarant’anni, fino a diventare qualcosa di intimamente connesso alle strade, alle case e alla vite di chi abita il capoluogo ligure e di coloro che riconoscono negli anni sessanta della nostra storia recente uno snodo fondamentale per capire quello che siamo diventati.



È come se il ponte avesse perso in questi anni la fisionomia dell’infrastruttura per diventare lo specchio delle tante esistenze che vivevano sulle sue corsie o alla sua ombra. La tragedia che ha portato via 43 persone lo scorso 14 agosto ha così finito per diventare una ferita – e una domanda – per la vita di tutti. Dalla percezione del non senso per un crollo inatteso, ma più volte profetizzato, alla rabbia che porta a cercare ovunque colpevoli capaci di spegnere la domanda di significato che da quei piloni inermi è più volte riemersa in questi dieci mesi e mezzo di discussioni, imbarazzi e polemiche: tutto ha contribuito a rendere quel ponte molto più di un ponte, a trasformarlo nella metafora sì di un paese che crolla e abbandona le sue speranze, ma anche e soprattutto di una modernità che – pur con tutte le sue promesse – non riesce a fuggire dalla decadenza e dalla morsa della morte.



Per questo non è retorico o artificiale chiedersi: davvero finisce tutto così? Perché nel lutto del ponte Morandi ciascuno rivive i suoi lutti, i suoi addii, le sue mille speranze infrante e i suoi desideri distrutti. Vedere crollare quel ponte è come assistere al tracollo di tutto quel mare di certezze che ci portiamo dietro e che pare destinato a soccombere dinnanzi all’urto del tempo.

Per questo è significativo che siffatta esplosione ridesti nel cuore un moto di tristezza e di ribellione: perché, mentre sappiamo che tutto è destinato a finire, siamo in attesa fervente di qualcosa che sfugga alle grandi leggi della vita. Le campate che spariscono nella nebbia dei pulviscoli sono dunque gli amori che finiscono, le amicizie che scemano, il gusto del lavoro che inaridisce, le paure che ci avvincono: non c’è fatto o bellezza – per quanto grande – che sembra possa sfuggire sul serio al destino di quel ponte e anche la gioia più intensa porta dentro una data di scadenza.



L’altro giorno uno dei ragazzi che ha finito l’orale di maturità è passato nel mio ufficio per congedarsi: aveva già iniziato i festeggiamenti e i suoi amici lo avevano inondato di spumante. Quando è entrato nella stanza i ragazzi di quarta che erano con me, e che stavano discutendo proprio del ponte, lo hanno guardato con un certo “schifo” dettato dalla puzza di alcool che portava addosso. C’era sullo schermo del mio pc una grossa immagine del ponte e lui ci ha guardato tutti, cogliendo improvvisamente lo iato tra la nostra discussione e la sua folkloristica presenza. È stato per un istante zitto e poi, con le lacrime agli occhi, ci ha detto: “Io non ho bisogno che i ponti non crollino o che gli esami finiscano, non ho bisogno dello spumante o del cento e lode… io ho bisogno di sapere che non sono solo… per me questi cinque anni con voi, con lei prof., sono stati la cosa più fastidiosa della mia vita… perché mi hanno messo nel cuore il sospetto di non essere solo, di non essere un caso, che tutto abbia un senso”. La ragazza che più lo aveva giudicato per come si era presentato nel mio ufficio è scoppiata a piangere e lo ha abbracciato. “Per questo quando tutto crolla il miracolo non è non piangere, ma iniziare a vedere che cosa ricomincia”.

È questo che può accadere quando cade un ponte, quando le cose finiscono, quando una pagina sembra voltarsi per sempre: lo stupore di scoprirsi ancora pieni di vita, pieni di attesa, pieni di qualcosa di irriducibile che non può essere distrutto da nulla. Nemmeno da me.