Il 7 aprile un decreto del ministro dei Trasporti ed infrastrutture di concerto con i ministri degli Interni, degli Affari Esteri e delle Salute ha di fatto chiuso, fino al termine dell’emergenza sanitaria nazionale, i porti italiani alle navi delle Ong e ad altre navi battenti bandiera straniera. Nell’art. 1 del decreto il governo determina che “i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per essere classificati e definiti come Place of Safety”. Con questo decreto ministeriale l’Italia sostiene che a causa della pandemia e dei suoi effetti il territorio del nostro Paese per i migranti è addirittura meno sicuro di quello libico, che tutt’ora classifichiamo come un Pos in cui sbarcare i migranti-naufraghi.



La situazione ci appare talmente paradossale e senza precedenti che, anche nel contesto della grave emergenza Covid-19, merita un approfondimento, soprattutto sul piano della scelta politico-strategica e al netto dello sdrucciolevole terreno giuridico su cui si muove il decreto. 

Prima di arrivare al dunque occorre fare una premessa di livello strategico generale, ossia che non esiste, a nostro avviso, un obbligo internazionale per gli Stati di identificare un posto sicuro sul proprio territorio in cui sbarcare migranti illegali che sono stati salvati in mare al di fuori delle proprie aree di competenza di Soccorso e Ricerca (Sar) da navi battenti bandiera straniera. Ciò non vuol dire disconoscere i doveri di salvataggio dei naufraghi, le convenzioni internazionali che regolano i diritti dell’uomo o il salvataggio delle vite in mare; vuol dire semplicemente riconoscere che questi trattati che regolano specifiche situazioni non vanno a costituire un sistema coerente, chiaro e onnicomprensivo di obblighi a cui gli Stati debbano attenersi sempre ed in ogni caso; vanno piuttosto considerati caso per caso e soprattutto bilanciati assieme a tanti diritti e doveri degli Stati, che con essi convivono nei meccanismi incerti del sistema internazionale. Tra di essi, il diritto alla sicurezza dei cittadini ed il diritto alla salute a cui corrispondono uguali doveri degli Stati di garantirli.



Questo vuol dire che l’obbligo di salvataggio in mare – a chiunque competa – non è sempre ed automaticamente abbinato al dovere di uno Stato specifico di offrire un posto sicuro dove sbarcare le persone. Sia perché la definizione di posto sicuro è ambigua e non univocamente definita, sia perché i posti sicuri sono tanti e la scelta tra l’uno e l’altro è frutto di vari calcoli e combinazioni giuridiche e di natura politica.

L’impatto su questo quadro già di per sé complesso e frammentario di situazioni eccezionali di emergenza (come una pressione migratoria quantitativamente o qualitativamente insostenibile o un deterioramento del quadro della sicurezza interna tale da non consentire la gestione ordinaria degli sbarchi) rischia di bloccare i precari meccanismi esistenti.



È chiaro che la situazione attuale in cui si trova il Paese a causa della pandemia che sta causando una crisi economica devastante e che potrebbe attivare altrettanto devastanti tensioni sociali, è fuori ombra di dubbio una di queste clausole eccezionali di autotutela che ogni Stato può invocare per attuare una politica restrittiva sulla disponibilità del proprio territorio come luogo di sbarchi per migranti salvati fuori dalle Sar nazionali.

L’attuale governo italiano non riconosce però questa facoltà di disimpegno politico dagli obblighi estensivi di accoglienza a terra dopo il soccorso in mare, avendoli sempre ritenuti inderogabili. Ed in una situazione di oggettiva emergenza ha dovuto seguire la via dell’eccezione giuridica, sostenendo che l’esplodere dell’epidemia rende i porti italiani insicuri e dunque essi vengono chiusi per l’impossibilità di garantire ai migranti un’adeguata assistenza sanitaria.

In questo modo il governo, invece che invocare una facoltà d’autotutela d’eccezione, criticabile ma sostenibile sul piano politico, ha scelto il declassamento dell’Italia intera dall’elenco dei Paesi sicuri. È una via pericolosa, che rischia anche di essere facilmente contrastata in quanto posta su basi giuridiche molto deboli. Soprattutto, visto che dichiara che i porti italiani non offrono standard sanitari sufficienti ma solo per i migranti sbarcati da navi battenti bandiera straniera, mentre resta possibile lo sbarco da parte delle navi battenti bandiera italiana.

Insomma il decreto sulla chiusura dei porti appare essere segno di una grande confusione. Ha poco a che fare con l’emergenza migratoria, che in questi giorni non vede picchi particolarmente preoccupanti negli sbarchi; non appare essere più di tanto connessa con la gravissima questione sanitaria della pandemia che per il momento non vede i migranti come vettori di trasmissione del virus; mette l’Italia in scontro con i Paesi europei in una posizione di debolezza giuridica e ci espone ad ulteriori misure restrittive nei nostri confronti, essendoci qualificati come Paese non sicuro dal punto di vista sanitario (la non sicurezza sanitaria non è difatti limitabile ai porti ma va estesa a tutto il Paese, anche perché il concetto che si deve disattivare è quello di “luogo sicuro” ben più ampio del concetto di porto).

Quali motivazioni possano aver spinto un governo che si è sempre caratterizzato per una politica di apertura dei porti a varare un provvedimento di chiusura dei porti su basi giuridiche approssimative in un momento in cui la pressione migratoria non è così elevata, può essere solo oggetto di supposizioni. Quella che ci appare più probabile è che questo decreto sia parte del braccio di ferro in corso tra Italia e Paesi europei sui meccanismi finanziari di assistenza agli Stati colpiti dalla crisi pandemica. Un tentativo disperato di condizionare il duro negoziato ampliando la partita alla questione migratoria, mandando il messaggio – alla Germania in primis – che l’Italia non sarà più disponibile nel proseguire la politica dei salvataggi e dell’accoglienza dei migranti in mare se non verranno accolte le nostre richieste economico-finanziarie sul sostegno al debito nella crisi economica.

D’altronde, lo scambio aiuti economici/tampone migratorio è divenuto negli ultimi anni una pericolosa tentazione e non c’è da stupirsi se facesse di nuovo capolino anche in questa fase. È tuttavia una tentazione che rischia di portarci ulteriormente fuori dall’Unione Europea, rendendoci ancora meno affidabili e più deboli nei negoziati. Nelle fasi complesse, quando sono in ballo interessi importanti e quando si tratta da una posizione di debolezza, è meglio mantenere strategie separate per i vari dossier, ciascuno con posizioni realiste, sostenibili e costanti nel lungo periodo.

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