Quattro lavoratori della Portovesme si sono asserragliati sulla ciminiera dell’impianto per fare presente all’opinione pubblica lo stato in cui versa l’unico produttore di zinco e piombo rimasto in Italia. L’impianto rischia il fermo e la chiusura a causa degli alti costi energetici; per un’intera filiera industriale, strategica per l’Italia, sarebbe un danno e oltre 1.000 operai rischierebbero di perdere il posto di lavoro. Ieri il prezzo a un anno dell’elettricità in Italia era di circa 155 euro a Megawattora, circa due volte e mezzo il prezzo medio del 2019. Incrementi di questo tipo sono insostenibili per le industrie energivore; l’intera produzione industriale italiana, e in un certo senso quella europea, è minacciata da costi che la rendono non competitiva. L’Italia, a differenza di altri Paesi europei, ha spazi fiscali limitati per sussidiare le imprese con aiuti di Stato più o meno mascherati.
Lo scenario di fondo è quello delle sanzioni successive all’invasione dell’Ucraina da parte russa e lo sconvolgimento che si è generato sui mercati energetici globali con flussi decennali che si sono interrotti e rimodellati. L’energia in Europa costa di più perché le sue catene di fornitura si sono allungate, perché partono da regioni che hanno costi di produzione più alti e perché l’Europa, politicamente, non è stata nemmeno in grado di firmare contratti di lungo termine con nuovi fornitori; a differenza della Cina, per esempio, che quasi da sola ha dominato la sottoscrizione di contratti di fornitura di gas liquido di lungo periodo.
Restiamo in Cina. I permessi alla costruzione di nuove centrali a carbone nel 2022 hanno raggiunto il livello più alto dal 2015. In Cina è partita la costruzione di centrali a carbone l’anno scorso per una capacità pare a sei volte quella del resto del mondo. In una fase di guerre commerciali e ridefinizione delle catene di fornitura globali poter produrre a costi competitivi è un valore incalcolabile. Il carbone è il modo meno costoso per produrre energia in Cina. L’India, che si candida a sostituire la Cina nelle produzioni destinate all’Occidente, assorbe quantità record di gas e petrolio russo a prezzi scontati. Anche sulla sponda africana del Mediterraneo, e non solo, arrivano forniture scontate.
Siamo in una fase in cui le multinazionali rivedono piani di investimenti che impatteranno per anni o decenni e li condizionano, ovviamente, ai costi energetici. Gli Stati, in una fase così movimentata, offrono grandi incentivi fiscali. È il caso, per esempio, dell’Inflation reduction act americano che è un invito irresistibile per le aziende con impianti in Europa.
L’Europa persegue solitaria il suo sogno “green”. L’eolico in Italia negli ultimi giorni di scarsa ventosità ha prodotto in alcune ore la miseria di 0,2 gigawattora; meno di quanto arriva dal geotermico che però funziona costantemente. È inutile esultare per le giornate in cui l’eolico arriva a 6 gigawattora. Le rinnovabili non sono programmabili è questo impone un costo sul sistema folle che nessuno o quasi evidenzia nei calcoli di convenienza. Un intero Paese dovrebbe programmare la propria produzione industriale e i propri consumi ogni mattina sulle base delle previsioni del tempo. È la ricetta perfetta per il ritorno a uno stile di vita pre-industriale che ha il suo fascino, indubbiamente, e un’aspettativa di vita di qualche decennio inferiore a quella che riesce a garantire il sistema industriale attuale. Non paga di questo l’Europa tassa le sue imprese per decine di miliardi di euro all’anno mettendo all’asta i diritti sull’emissione di CO2. Un’ulteriore tassa sulle imprese, un’ulteriore costo che inevitabilmente finisce nell’inflazione. Nessuno che si chieda, almeno, se non ci sia un minimo di capacità di influenzare il “dibattito scientifico” da parte di una burocrazia che con la narrazione “green” fa salire tasse, in Europa, per quasi 50 miliardi di euro all’anno.
Se l’Europa e l’Italia non risolvono il problema dei costi energetici a brevissimo le ipotesi sono solo due. Il primo è il collasso della produzione industriale schiacciata da costi insostenibili. Il secondo è l’introduzione di dazi all’importazione su base “green” che verrebbero inevitabilmente visti come protezionistici dai partner commerciali. L’Europa si chiuderebbe, in questo caso, in una sorta di gulag in tonalità verde senza avere, tra l’altro, risorse naturali degne di nota.
Portovesme, in altre parole, non è un caso singolo, ma è la realtà che si sviluppa sotto i proclami per lo scampato pericolo di questo inverno e che riemerge, grazie ad azioni eclatanti, nella forma di chiusure e licenziamenti.
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