La consacrazione a San Pastore della gelida Abbazia di Greccio dove Nicola Zingaretti ha riunito lo stato maggiore, si fa per dire, del suo Pd potrebbe – col senno di poi – essere stata un’autoironica invocazione alla necessità di ricevere dall’alto il segnale su chi possa essere, da domani, il pastore capace di ricondurre all’ovile le pecore disperse degli elettori di un tempo. Ma a quanto si è capito dalla diaspora alla spicciolata dei convenuti, per ora nessuno segno miracoloso è intervenuto a rischiarare il futuro prossimo dell’ex partitone, se si esclude la buona volontà e la voce accorata del pur bravo reggente.



Ciò di cui – stando ai resoconti e alle dichiarazioni – proprio non si è parlato tra quelle mura solenni ed evocatrici ma fredde è la necessità di rifocillare il partito con una nuova teoria economica, qualcosa che sia in grado di riscaldare gli animi e ricompattarli attorno ad un programma di speranza. Qualcosa capace di superare la subalternità al modello turbocapitalista yankee scelto da Matteo Renzi, per esempio con la (fallimentare) cooptazione di Jamie Dimon della JpMorgan al capezzale del Montepaschi; o con gli abbracci con il pur bravo (e compianto) Marchionne; o con l’ostracismo verso il sindacato rosso, la Cgil, un tempo quinta colonna sulle piazze e nei seggi elettorali. E insomma, con l’abiura verso il gran popolo degli elettori degli Anni Settanta, Ottanta e Novanta che vedevano in quella bandiera rossa il vessillo di una promozione umana e sociale poi euforicamente riconvertita alla gig-economy, all’innovazione digitale dei grandi evasori mondiali, alla difesa dei redditi da capitale prima che di quelli da lavoro, e del lavoro autonomo più che del lavoro dipendente.



Il partitone passato dalla tutela dei diritti sociali alle coccole per i diritti civili sta veramente cercando un nuovo pastore. Perché la bandiera della falce e del martello trasformata in quella del fine vita e delle unioni civili non ha fatto che scavare una profonda trincea tra sé e le fasce redditualmente più deboli della società, cui le elemosine degli 80 euro ed anche del reddito di cittadinanza, pur utili, non hanno restituito alcuna speranza in quell’ascensore sociale che invece le lotte sindacali della lunga stagione operaista avevano indefessamente continuato se non a costruire per lo meno a vagheggiare.



Zingaretti sembra non averlo capito: e infatti se ne viene fuori con dichiarazioni rivolte a inglobare il M5s senza entrare nel merito del perché il disagio della perdente metamorfosi piddina abbia trovato asilo sotto il cielo a 5 Stelle qualche anno fa ed ora sembri addirittura cercarlo tra le anonime sardine.

Senza una nuova teoria economica capace di aggregare più e meglio di quella antica, alla fine il grande partito che comunque esprime l’uomo al vertice del ministero dell’Economia, Gualtieri, peraltro forse il ministro più competente nell’intera squadra dell’esecutivo, finirà col vedere ogni iniziativa avocata dal pur inesperto premier Conte.

Per carità, Zingaretti ha invocato un “partito aperto nella società”, dicendo che “il partito deve mutare e cambiare per diventare forza motrice che interpreta il cambiamento. Siamo qui per indicare al Paese una prospettiva nuova”. Ma questa prospettiva comprende o meno il ritorno agli ammortizzatori sociali affidabili di un tempo? Comprende o meno una riforma dei controlli fisici capillari antievasione? Una patrimoniale magari piccola ma chirurgica non tanto sul mattone, già tartassato, ma sui grandi e grandissimi patrimoni mobiliari?

“Siamo una comunità che tenta di mettere gli interessi generali delle persone al primo posto”, ha detto ancora il segretario. Ma è una parola: quali sono gli “interessi generali”? Quelli dei Benetton o quelli delle famiglie delle 43 vittime del Morandi e dei milioni di automobilisti obbligati a percorrere, pagando giustamente fior di pedaggi, autostrade costruite con i soldi delle tasse e oggi sfruttate nella loro inossidabile capacitò reddituale da pochi padroni privati?