Sono molti, e di rilievo, i dati di contesto dai quali muovere per una riflessione sulle tante questioni che il post referendum ha aperto, e che riguardano sia il sistema elettorale che quello costituzionale. Ne cito alcuni.

Il primo dato consiste nella riduzione del numero dei parlamentari, specie al Senato, con le criticità che ne conseguono in termini di rappresentatività politica e territoriale.



Il secondo elemento attiene alla possibile approvazione, entro questa legislatura, delle riforme costituzionali che tendono a rendere “ perfettissimo” il nostro bicameralismo perfetto, omogeneizzando la composizione di Camera e Senato con l’abbassamento a diciotto anni del requisito per gli elettori del Senato, e con l’elezione di quest’ultimo su base circoscrizionale, piuttosto che su base regionale.



Il terzo dato è costituito dall’affermarsi in concreto del cosiddetto monocameralismo di fatto, e cioè della tendenza di ormai diverse maggioranze a fare approvare i provvedimenti di iniziativa governativa in un solo ramo del Parlamento, lasciando all’altro la sola ratifica del voto.

Il quarto attiene al sistema politico, e al suo atteggiarsi. Dato sostanzialmente “volatile”, visto che l’affermazione che il nostro sia un sistema tripartito è stata smentita dai risultati delle elezioni amministrative, con una nuova bipolarizzazione dell’orientamento di voto.

Ultimo dato: è quasi scomparso dal dibattito sulla legge elettorale il tema della governabilità, che mi è sembrato citato più per dovere d’ufficio che per reale convinzione. Non è certamente ininfluente al proposito la singolarità delle esperienze di governo di questa legislatura, che ha visto il variare delle alleanze e la permanenza dello stesso Presidente del Consiglio



Su questo quadro di contesto, inedito e per certi versi ancora confuso, continua a proiettarsi l’ombra dell’antiparlamentarismo. Non tutte le questioni possono essere risolte con la riforma delle legge elettorale, ma essa è decisiva.

Occorrerà ricordare che il sistema dei cosiddetti listini bloccati, quando non garantiscano la conoscibilità (che non è ancora la scelta) dei candidati, sono costituzionalmente illegittimi. Questa affermazione è tanto più vera quanto più siano le candidature di ciascun listino e quanto più grandi siano i collegi elettorali. Un rischio di illegittimità molto serio, dunque, specie se guardiamo alla proposta di riforma elettorale per il Senato, alla grandezza delle circoscrizioni, al numero dei candidati. Un simile sistema priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti e rimette tale scelta ai partiti, ma l’articolo 67 della Costituzione prevede che siano gli elettori, e non i partiti, a dare mandato ai rappresentanti in Parlamento.

Bisognerà prendere atto del fatto che la presenza delle donne in Parlamento, nel suo miglior risultato si ferma al 36%, mentre oltre la  metà della popolazione nazionale è costituita da donne.

Non è esatto sostenere che il sistema maggioritario razionalizzi il sistema politico e rafforzi la stabilità dei governi. Ha altri vantaggi, in particolare quello di connettere strettamente l’eletto agli elettori del suo collegio, ma storicamente, nella nostra esperienza, ha accentuato la frammentazione delle forze politiche perché consente anche alle più piccole di esercitare un potere di ricatto significativo, visto che per vincere in un collegio ogni voto conta. Questa frammentazione ha poi infragilito, e non rafforzato, la stabilità dei governi, basti pensare alle vicende dei due governi Prodi e del primo governo Berlusconi.

Si dovrà tenere conto che, comunque, la diminuzione dei parlamentari, in particolare al Senato, e la previsione di una soglia di sbarramento ragionevole inducono già un effetto maggioritario.

Sono indicazioni di cui certamente il legislatore terrà conto. Passerà del tempo prima che il Paese abbia un nuovo definitivo assetto istituzionale, visto che la riduzione dei parlamentari apre più questioni di quante abbia inteso chiuderne.

In questo tempo occorrerà innanzitutto “prendersi cura” del sistema parlamentare, salvaguardandone rappresentatività, e dunque autorevolezza e potenza democratica. La legge elettorale è la prima occasione per farlo, per perseguire, come dice Andrea Manzella, “la costruzione di una legittima e forte rappresentanza politica, premessa ineludibile se si vuole dare al governo il valore di esercizio democratico del potere, fondato su un reale consenso e una reale propensione dei cittadini a collaborare all’impresa collettiva”. Aggiungerei: specie oggi. Una responsabilità comune, di elettori ed eletti, di governanti e governati.