“Il lavoro fa male, lo dicono tutti, È meglio fare l’amore, anche tutte le sere, sì che fa bene” cantava a fine anni Novanta una giovane fiorentina. Sembra che molti abbiano preso alla lettera questo verso canoro almeno per quanto riguarda il lavoro, che pare far tanto male che la difficoltà di reperimento del personale da parte delle imprese ha riguardato, nel 2022, circa il 40% delle possibili assunzioni ed è destinata ad aumentare ulteriormente anche per la presunta accelerazione della domanda di lavoro come effetto degli investimenti del Pnrr sui territori.
Questo è, perlomeno, quanto stima il periodico rapporto di Unioncamere sui fabbisogni professionali del tessuto produttivo. Lo stesso evidenzia come le filiere produttive per cui si è stimato un costo economico maggiore della media, dovuto proprio al ritardo nell’inserire i lavoratori ricercati, sono state quelle dei servizi operativi, commercio e turismo, costruzioni e infrastrutture. Tutti settori che si caratterizzano, è opportuno sottolinearlo, per un elevato turnover legato anche ai fattori stagionali.
Un costo, quello del mismatch, che rischia, complessivamente, di aumentare nei prossimi anni in considerazione di alcuni macro-trend che stanno già cambiando profondamente il mercato del lavoro italiano e globale: la transizione digitale e green e l’andamento demografico.
Le imprese, insomma, fanno, e plausibilmente faranno, sempre più fatica a soddisfare il loro fabbisogno di professionalità. Difficoltà costate, solo nel 2022, alle aziende del nostro Paese 37,7 miliardi di euro, pari al 3,1% di quanto generato complessivamente dalle filiere dell’industria e dei servizi.
Sta, in questo quadro, a tutte le componenti coinvolte, a partire dalle parti sociali e dal Governo, operare, sfruttando anche le ingenti risorse del Pnrr, per cambiare, nel più breve tempo possibile lo stato dell’arte.
Tuttavia, come noto, il lavoro non si crea per decreto e, tantomeno, si creano i lavoratori con le “giuste” competenze. Serve, probabilmente, anche, se non soprattutto, una profonda svolta culturale che rimetta al centro il lavoro come importante elemento, se non addirittura come quello centrale, per riattivare nel nostro Paese un ascensore sociale che sembra, da troppo tempo, si sia fermato a piano terra e che, in disaccordo con la convinzione di Irene Grandi, sappia far essere, o tornare a esserlo, il lavoro almeno un pò “sexy”.
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