Ormai non passa giorno che ai telefoni o nelle caselle di posta elettronica di istituti tecnici, professionali o degli ITS Academy non arrivino messaggi più o meno disperati di ricerca di personale qualificato.
I dati dei vari centri studi (Excelsior di Unioncamere e Anpal, di Confindustria e altre associazioni datoriali) parlano chiaro: alle nostre aziende mancano decine di migliaia di lavoratori e il risultato si traduce in perdita di competitività. Si stima che nel settore manifatturiero il danno all’industria in termini di mancato fatturato ammonti a qualche miliardo di euro.
Le prospettive non sono rosee. Esaminando la curva delle nascite del nostro Paese si può vedere come la vera ripida discesa nel numero delle nascite sia avvenuta attorno agli anni 2008/2015 e che quindi la più importante flessione in termini di arruolamento di giovane personale tecnico avverrà tra pochissimi anni. Se si aggiunge il fatto che un numero sempre maggiore di giovani formati nelle scuole e università italiane decide di andare a lavorare all’estero, il quadro da “tempesta perfetta” sulle prospettive del sistema economico produttivo italiano si completa in modo drammatico.
È necessario quindi che le nostre aziende abbandonino mezzi “classici” di reclutamento, divenuti assolutamente inefficaci, ma anche organizzazioni del lavoro e modalità di approccio con i dipendenti obsolete e cerchino strategie nuove. L’alternativa, per le realtà che non affrontano il problema o lo sottovalutano, è la chiusura per mancanza di personale.
Innanzitutto, è opportuno evitare gli errori. Il concetto che “prima si studia e poi si lavora” deve essere sostituito con l’organizzazione di una formazione integrata che parta dalla scuola e prosegua per tutta la carriera lavorativa. Cercare tecnici completamente formati e in grado di occupare posizioni lavorative al termine di un percorso scolastico tradizionale non ha più alcun senso, se in precedenza non si sono instaurati rapporti di collaborazione fattiva scuola–azienda che possano quantomeno porre le basi per una conoscenza iniziale del mondo del lavoro da parte dei giovani, per poi affinarsi in sistemi misti attraverso gli apprendistati di primo livello per le scuole superiori e l’IeFp e di terzo livello per ITS Academy e Università. In questo senso l’affannosa ricerca dei famigerati “elenchi dei diplomati” risulta di scarsa efficacia e si traduce in inutili invii massivi di e-mail (che non vengono lette dai ragazzi) o in ore passate al telefono a cercare di parlare con chi non risponde.
Ma la “parola magica” sulla quale gli HR (responsabili del personale) delle aziende dovrebbero indirizzare la loro attenzione è attrattività. I giovani oggi non sono quelli di qualche anno fa: beninteso, non sono né migliori né peggiori, solamente diversi. Di fatto i valori che spingevano le nuove generazioni verso carriere di successo ora sono scaduti, non funzionano più.
Chi offre posizioni lavorative deve quindi studiare proposte che non siano solo allettanti dal punto di vista economico, anche se questo permane come importante punto di valutazione, ma che vadano a considerare fattori di difficile comprensione per chi non frequenta l’arcipelago “generazione Z”.
Sulle cause del fenomeno si stanno elaborando decine di studi e forse è il caso di lasciare a esperti sociologi il loro lavoro; qui vorrei solo cercare, sulla base di indicazioni assolutamente empiriche che derivano dall’opportunità di lavorare in mezzo ai giovani, di delineare qualche indicazione per essere “attrattivi”.
Oramai è dato per scontato che sono i giovani a scegliere l’azienda e non viceversa. La grande richiesta di tecnici preparati da parte del sistema produttivo ha fatto sì che, per la legge della domanda e dell’offerta, la tipologia del lavoro che si propone, le prospettive di progressione o le possibilità di cambiamento, l’immagine dell’azienda e i sistemi di welfare siano diventati la base della scelta.
Dato che il lavoro è un diritto-dovere del cittadino sancito dalla Costituzione e che comunque per chi inizia ora si prospetta una lunga carriera lavorativa (nessuno sa precisamente quando andrà in pensione), nell’immaginario dei giovani d’oggi è naturale concepire il lavoro come soddisfazione personale e come modo di vivere con impegno, ma senza affanni, una parte importante della vita.
Il proprio tempo diventa prezioso. Il “dopo Covid” ha lasciato in eredità la sensazione generale che la vita sia importante nella sua interezza e che non valga la pena di sacrificarla in massima parte al lavoro. Per un giovane è quindi necessario avere “tempo libero” da dedicare alle passioni, alle relazioni, alla cultura e al divertimento. È chiaro che in un sistema economico la prestazione lavorativa debba essere esercitata con un quadro orario più o meno definito, ma forme di flessibilità, possibilità di lavoro da casa, ambienti di lavoro innovativi che prevedano anche momenti e strumenti di svago per i dipendenti sono certo preferiti alla vita da “travet” delle 40 ore settimanali. Alla fine, produce una redditività migliore sul lavoro il finalizzare le attività al raggiungimernto di obiettivi, più che alle ore lavorate. Sul tema esistono tecniche organizzative efficaci che varrebbe la pena di mettere in atto.
Persino la sicurezza del posto di lavoro, fino a poco tempo fa considerata un punto fisso per una scelta ragionata, ora lascia il posto alla possibilità di avere competenze facilmente spendibili in qualsiasi organizzazione e che permettano di cambiare azienda senza grossi problemi. Anche su questo punto imprenditori e manager dovranno fare qualche riflessione.
Passando a una scala più allargata e a quanto in molti casi si sta cercando di proporre in sinergia con le amministrazioni locali, un tema importante è quello che potremmo definire “attrattività di territorio”. Un territorio per attrarre giovani dovrebbe fornire loro, oltre alla possibilità di studiare e in seguito di lavorare con soddisfazione in imprese innovative, anche tutti i servizi legati alle esigenze di sopravvivenza (mangiare, dormire, spostarsi, ecc.) anche tutto quello che riguarda attività di svago, cultura e socializzazione. Se un giovane si sente “accolto da un territorio” probabilmente deciderà di rimanere o al contrario sarà attratto da altri territori che gli possano offrire un vivere migliore. In definitiva è la strategia che stanno mettendo in atto molte realtà straniere per convincere i nostri ragazzi a spostarsi.
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