Il “golpe costituzionale” di Emmanuel Macron in Francia è maturato quando il Parlamento italiano è impegnato nel voto sul progetto di riforma costituzionale del premierato. In sé l’argomento sarebbe imperdibile, in Italia, per la campagna politico-mediatica contro il premierato promosso da Giorgia Meloni. Ma protagonista di un blitz dal forte sapore autoritario non è stato Viktor Orbán (talmente “dittatore” in Ungheria cha ha perso l’euro-voto, ma non ha certo reagito con bizze scioccanti per intimidire e ricattare gli elettori).
Macron, invece, domenica sera non è sembrato molto diverso da un autocrate extraeuropeo: se non proprio Vladimir Putin, almeno Recep Erdogan. è andato in diretta tv un’ora dopo la chiusura delle urne in Francia, quando erano ancora aperte in altri Paesi. Si è mosso sugli exit polls, senza attendere risultati dotati di un minimo di ufficialità istituzionale. Non ha riunito il suo governo, né interloquito con il presidente dell’Assemblea nazionale, che pure rimane al centro della democrazia nel paese della Revolution. Macron, che parlamentare eletto non è mai stato, ha espulso da un momento all’altro 577 parlamentari di 10 forze politiche, detentori esclusivi del potere legislativo. Senza che entrasse in funzione alcun meccanismo di “check and balance” politico-istituzionale.
Ha chiuso d’imperio i battenti di un’aula che era diventata per lui “sorda e grigia”: e non solo per l’esito esterno dell’ultimo euro-voto (l’Assemblea aveva già frenato in modo decisivo la riforma della pensioni e aveva provocato, solo cinque mesi fa, un ricambio fra Elizabeth Borne e Gabriel Attal al vertice del “governo Macron”). Così facendo, l’Eliseo ha comunque mandato in pezzi uno dei principali canovacci narrativi che in Italia il centrosinistra stava preparando per i prossimi mesi contro il premierato e il governo Meloni?
Saranno cent’anni, il 3 gennaio prossimo, da quando il premier Benito Mussolini affrontò la Camera, minacciando di trasformarla in un “bivacco di manipoli”. Fece di peggio, varando leggi liberticide, ma non chiuse mai il parlamento elettivo. Furono semmai le opposizioni a lasciargli campo libero, arroccandosi sull’Aventino. In comune con Macron (che al primo turno delle presidenziali non ha mai ricevuto più del voto di un francese su quattro), Mussolini aveva una base elettorale inizialmente minoritaria. Ai tempi della Marcia su Roma i fascisti potevano contare alla Camera solo su 37 deputati su 535 e solo perché accolti nel 1921 nelle liste dei liberali giolittiani. Fin da allora il futuro Duce era tacitamente appoggiato da tutti i “poteri forti” extraparlamentari: la Monarchia e il suo Senato non elettivo; i poteri industriali e bancari, che già controllavano i grandi media italiani.
Un secolo dopo è ancora possibile invocare Macron, dall’Italia, come stella polare e gran protettore dell’“europeismo democratico” contro le (presunte) “onde nere”? È un leader che ha costruito la sua parabola ispirandosi apertamente a Matteo Renzi: quest’ultimo un non-parlamentare inventato premier dall’ennesima forzatura “semipresidenzialista” di un presidente della Repubblica formalmente parlamentare come Giorgio Napolitano. Un leader, Renzi, dotato di pieni poteri per mille giorni (premier e segretario Pd) salvo poi sfidare gli elettori su una riforma costituzionale ed essere sonoramente battuto.
A differenza di Macron, tuttavia, Renzi si dimise subito, con un colpo di teatro come quello dell’Eliseo. Ma non fu l’inizio della riscossa, quanto di un inarrestabile declino, probabilmente giunto al capolinea con l’euro-voto di domenica. Nel frattempo al Quirinale c’è ancora Sergio Mattarella, eletto una prima volta nel 2015 dal “patto del Nazareno” fra il Pd renziano e il centrodestra berlusconiano.
Sarà ancora possibile, per il centrosinistra italiano, fare appello al firmatario francese del Trattato del Quirinale del 2021? Quell’accordo di amicizia fra Roma e Parigi è stato uno dei punti estremi della deriva semipresidenzialista del Quirinale “dem”. È stato il momento che, forse, ha definitivamente convinto il centrodestra a porre un premierato “correttivo” fra le proprie priorità d’agenda.
Ora il progetto di riforma si sta materializzando. E sta avvenendo in Parlamento, non una domenica all’ora di cena, nello studio di un Presidente–monarca, da un Eliseo mascherato da Cremlino. Se il premierato diverrà legge costituzionale – prevedibilmente non prima di un referendum popolare confermativo – ciò avverrà dopo due nette affermazioni elettorali nazionali consecutive della maggioranza che l’ha promosso. E stavolta senza rischi di ribaltoni come quello maturato dopo l’euro-voto del 2019 e a cavallo del G7 in cui Donald Trump (futuro assalitore del Campidoglio Usa) diede la sua benedizione a “Giuseppi” Conte. Premier non parlamentare e trasformista, sedicente “cattolico democratico”, acclamato dal Pd come “punto di riferimento della sinistra italiana”. Abituato a governare per “decreti del presidente del Consiglio dei ministri”, annunciati direttamente al popolo la domenica sera in diretta tv.
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