È una riforma, quella del premierato voluto dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che contiene squilibri e rischi di incostituzionalità, avverte Michele Ainis, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Roma Tre, editorialista di Repubblica e scrittore.

Manca ancora un testo (dovrebbe essere varato oggi dal Consiglio dei ministri), ma sembrano mancare i presupposti di quel “rendiconto quotidiano sull’esercizio del potere” – spiega Ainis al Sussidiario – che garantiscono una democrazia equilibrata e matura e che dipendono dal controllo sulle decisioni.



La Meloni ha fatto una mossa abile, riconosce il giurista, una mossa che – almeno in teoria – dà una chance in più alla sua riforma rispetto a quelle di Berlusconi e Renzi.

Professore, premierato vuol dire elezione diretta del presidente del Consiglio. Per avere una democrazia “decidente” occorre eleggere direttamente qualcuno?



In linea generale no, ma c’è da tempo una mitologia del decisionismo: si va da Craxi, che ne fece una delle sue bandiere politiche, alla Fondazione Italiadecide di Violante. Il risultato di questa mitologia è che di decisionismo ne abbiamo anche troppo. Basti pensare ai decreti legge, oppure, al tempo del Covid, al decisionismo solitario del presidente del Consiglio che si esprimeva nei Dpcm.

Giusto o sbagliato?

La democrazia è anche decisione, ma questo vale per qualunque sistema di governo, che come tale serve a produrre decisioni. La qualità di queste decisioni, però, dipende dalla possibilità di controllarle.



Qualcuno ha fatto notare come il ddl di riforma costituzionale in arrivo comprometta proprio l’equilibrio dei poteri.

Un’impressione precisa potrò farmela soltanto leggendo il testo, e un testo al momento non c’è. Non ci resta che esercitarci a commentare i pensieri altrui, che sono sempre volatili.

E se lo squilibrio ci fosse?

Un pregio del sistema democratico dovrebbe essere quello di offrire sistemi di controllo più efficaci, perché la democrazia, alla fine, dovrebbe essere proprio questo: un rendiconto quotidiano sull’esercizio del potere. Il potere è inevitabile: non può esistere una società senza potere. Tuttavia, come dicevano i Greci, al potere si devono tagliare le unghie, per impedire che ci faccia troppo male.

Quindi?

La questione non è la decisione in sé, ma la sua qualità, che dipende anche dal grado di partecipazione, cioè dalla condivisione, e il controllo su di essa.

La coalizione vincente, che esprime il presidente del Consiglio, avrebbe diritto al 55% dei seggi. Ovviamente andrà scritta la legge elettorale. Che osservazioni farebbe in proposito?

Se quella cifra pari al al 55% dei seggi venisse messa nero su bianco in una nuova norma costituzionale, potrebbe violare i principi supremi della Costituzione, come ha stabilito la Corte costituzionale nel 1988. Nella sentenza 1146 la Consulta ha detto che “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”. Questi principi supremi, se si fa eccezione per la forma repubblicana, non sono “espressamente menzionati” e forse è stato un bene non farlo. Però, il nostro caso potrebbe rappresentare una violazione.

Perché, professore?

Ipotizziamo che le coalizioni in campo non siano due ma cinque: potrebbe risultare vincente quella che ottiene il 15% dei consensi, davanti alla seconda che si attesta al 13%. Si creerebbe una palese distorsione tra espressione del voto e traduzione di quei voti in seggi (il 55%): avremmo un sistema super-maggioritario che nega il presupposto della rappresentatività, che dovrebbe essere sempre rispettato. Da qui il dubbio sulla legittimità costituzionale di questo intervento di revisione costituzionale, anche se poi sarebbe arduo investirne la Corte costituzionale.

E se la quota spettante di seggi per garantire la “governabilità” non venisse messa in Costituzione?

In questo caso, cioè se venisse affidata alla legge elettorale da riscrivere, questa stessa legge elettorale sarebbe sicuramente incostituzionale. Infatti c’è un precedente: il “Porcellum” è stato annullato dalla Consulta (1/2014) proprio perché non c’era una soglia minima.

È vero che il premierato finirebbe per ridimensionare il presidente della Repubblica, squilibrando gli attuali i poteri?

Non solo il presidente della Repubblica, anche il parlamento. In un appartamento l’aria non è infinita, se io la respiro tutta la tolgo agli altri. Allo stesso modo la quantità di potere va redistribuita: se qualche organo costituzionale se ne nutre maggiormente, gli altri dimagriscono. È un principio di “fisica” costituzionale che non può essere violato; per questo vanno trovate delle compensazioni

Con la seconda repubblica il Quirinale ha aumentato il proprio potere a discapito dei partiti e del parlamento. E se il premierato fosse il tentativo, da parte di chi lo propone, di recuperare lo spazio politico sottratto ai partiti?

Può darsi che ci sia questa retro-intenzione. Io ho un’analisi diversa. Il ruolo del presidente della Repubblica si è gonfiato perché i partiti sono in crisi da tempo e questa crisi si è trasmessa al parlamento. È vero: il dimagrimento del parlamento ha “ingrassato” il Quirinale. Nello stesso tempo, però, siamo entrati nella “capocrazia”, la democrazia del capo.

La Treccani le riconosce la paternità del neologismo. Può spiegarlo in breve?

Non è un fenomeno solo italiano. Se ci guardiamo intorno, troviamo ovunque sistemi in gran parte incarnati da leader forti o addirittura autoritari, le “democrature” di cui parlava Eugenio Scalfari. In Italia questo passaggio è avvenuto con i partiti personali. Il “Porcellum” (l. 270/2005) prevedeva che ogni coalizione indicasse, letteralmente, il “capo”. Mussolini è stato il primo “capo” politico: capo del governo, appunto. Non a caso la Costituzione parla di presidente del Consiglio dei ministri.

Ma come si arriva alla capocrazia dei partiti personali?

È stata alimentata in periferia dalle riforme degli anni 90, l’elezione diretta dei sindaci e dei governatori regionali, che ha zittito progressivamente i consigli comunali e regionali; basti pensare alla pioggia di ordinanze e di decreti emanati durante il Covid. In ogni caso Siamo davanti ad un grande fenomeno articolato che guarda nella stessa direzione, la concentrazione e la personalizzazione del potere.

Tutto questo non significa che la vera riforma da fare riguarda piuttosto i partiti?

I partiti sono in crisi ovunque, sarà difficile resuscitarli. Erano così belle le carrozze a cavallo, ma ormai viaggiamo sugli aerei. Io credo che il correttivo migliore sarebbe il potenziamento degli strumenti di democrazia diretta, ad esempio il recall. Nella patria del presidenzialismo, che sono gli Stati Uniti, c’è. Non consente di revocare il presidente, ma i governatori sì. Nel 2003 Gray Davis venne sconfitto in un recall (recall election) e al suo posto fu eletto Schwarzenegger. Noi abbiamo avuto parlamentari che si vantavano di partecipare al 7% delle sedute perché avevano da fare… e nessuno poteva fargli nulla. Oppure c’è il caso dell’eletto disonesto.

Altri strumenti?

Il primo governo Conte aveva cavalcato l’idea del referendum propositivo. È una strada possibile.

Secondo un recente sondaggio Demos per Repubblica l’elezione diretta del presidente della Repubblica e quella del presidente del Consiglio sono a pari merito nelle preferenze degli italiani (57%) e vengono interpretate come una domanda di “autorità autorevole”. È così?

Sul presidenzialismo soffia il vento della storia. È interessante osservare che storicamente abbiamo assistito al passaggio da sistemi parlamentari a sistemi presidenziali, non il contrario. Che poi gli italiani non facciano troppa distinzione tra l’elezione del presidente della Repubblica e quella del presidente del Consiglio, ci può stare: non si può chiedere a tutti una laurea in giurisprudenza. Ma non hanno neppure tutti i torti.

Come andrebbe interpretata questa preferenza degli italiani?

La si comprende di più se ci chiediamo che cos’è il presidenzialismo: l’elezione diretta – attenzione – di chi governa. Se governa il presidente della Repubblica avrò il sistema statunitense o francese, se governa il presidente del Consiglio avrò il sistema israeliano o il “sindaco d’Italia”. L’ispirazione è la medesima.

Secondo lei il ddl andrà a schiantarsi?

Premierato e autonomia differenziata sono due riforme che si tengono perché sono oggetto di un accordo politico tra alleati. A mio avviso la prima non è più popolare, le regioni del Sud non si fidano e se andasse a referendum verrebbe bocciata. Non si andrà, ovviamente, perché è una legge ordinaria. La riforma costituzionale invece ha molte più possibilità di passare il referendum.

Perché?

Perché, e questa è una mossa abile, si concentra su pochi articoli, diversamente da quelle di Berlusconi e di Renzi che erano fatte di molti, troppi articoli, creando spaesamento negli elettori. L’unica è augurarci che nel progetto ci sia un po’ di coerenza e aspettare.

(Federico Ferraù)

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