Due mezze riforme non ne fanno una piena, ma neppure lasciano il bicchiere vuoto. Maggiori deleghe regionali e l’ipotesi di una repubblica dove il premier acquisti maggiori spazi dopo una elezione diretta erano ipotesi sul tappeto da trent’anni, fino ad ora vittime di veti incrociati e franchi tiratori.

Dopo la loro prima approvazione nel lungo iter procedurale previsto non sono una rivoluzione, ma diventano oggi più che altro delle bandierine che si muovono forse nella direzione giusta, pur lasciando un po’ tutti i relativi sponsor con l’amaro in bocca, perché si capisce che i conti potrebbero non tornare a dovere.



Il premierato non è una repubblica presidenziale – e neppure semipresidenziale – e crea non pochi problemi nel bilanciamento dei poteri, anche se porta in dote alcune novità importanti e positive, come far decidere agli elettori chi deve essere il presidente del Consiglio, sottraendolo a ribaltoni e ad alleanze intercambiabili.



Anche una maggior libertà alle singole Regioni su materie specifiche permetterà a chi vuol marciare a ritmi più spediti di non dover aspettare le ultime della classe, ma – anche qui – sono tali e tanti le deroghe, le norme ed i contrappesi che solo alla prova dei fatti vedremo come si regolarizzerà il nuovo sistema.

Il premierato è stato approvato solo in prima lettura, quindi è soggetto al “gioco dell’oca” dell’andare e venire ad ogni successivo eventuale cambiamento, mentre già l’opposizione si attrezza in vista della “prova referendum” che rischia (come in passato) di mandare magari tutto all’aria. L’autonomia invece è stata approvata in via definitiva, ma per attuarla servono riforme preliminari, come è stato già spiegato su queste pagine, a cominciare dalla definizione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni.



In sé sono tematiche che in passato erano già state oggetto di tentativi di riforma anche da parte della sinistra, che invece oggi le osteggia: giustamente c’è chi ha ricordato che – per esempio – erano anche nel programma di Achille Occhetto nel 1994, quello della “gioiosa macchina da guerra” finita fuori strada ancor prima dell’uso. Su questi stessi temi sono fallite le mediazioni bicamerali di D’Alema e – nella notte dei tempi – perfino del fu senatore liberale Aldo Bozzi. Anche nell’agonia della prima repubblica (1992-94) comparve una commissione bicamerale per la riforma costituzionale De Mita-Iotti, naufragata senza storia sotto l’incalzare di “Mani pulite”.

Il problema è che oggi queste riforme sono appunto “bandierine” di Lega (l’autonomia) e Fratelli d’Italia (il premierato), il che crea automaticamente la contrapposizione preconcetta dell’opposizione.

Così chi è contrario solleva cavilli e paure esagerate su presunti rischi di fascistizzazione o al contrario di dissoluzione dello Stato, ad esempio scoprendo improvvisamente il problema dell’intangibilità costituzionale dell’inquilino al Quirinale, soprattutto perché in fondo Mattarella (come i suoi predecessori) sono stati eletti da maggioranze diverse dall’attuale e potendo così essere sempre utilizzati come utile “corte d’appello” rispetto ad un qualsiasi voto parlamentare non gradito.

Anche far nascere uno psicodramma sulla questione dei senatori a vita è francamente esagerato, tenuto conto che comunque quasi nessun italiano sa esattamente chi siano (per la cronaca, Mario Monti, Renzo Piano, Elena Cattaneo e Carlo Rubbia, ve li ricordavate tutti?) oltre all’onnipresente Liliana Segre, promossa a coscienza critica della nazione.

Circa invece la riformina regionale, è utile dare più spazio a chi lo chiede e sono esagerate le paure di chi teme di rimanere indietro, perché quelle stesse aree “depresse” dovrebbero anche farsi un esame di coscienza sul perché si ritrovino in queste condizioni nonostante investimenti colossali. Dalla “Cassa per il Mezzogiorno” al PNRR non è che i fondi mancassero, ma in passato (ed anche ora) troppi soldi sono spesi male, eppure mai nessuno recita il “mea culpa”.

Evitiamo insomma da una parte di sbandierare successi ancora tutti da verificare e smettiamola dall’altra di impostare polemiche assurde: il tentativo di riformare la Costituzione andava e va fatto, finalmente ha prodotto un risultato, sia affinato ed aspettiamo di vederne gli effetti.

Quello che piuttosto va sottolineato è che il governo Meloni a questi risultati ci è comunque arrivato e questo sottolinea come la stabilità di un governo sia un aspetto positivo, a conferma dell’utilità di una riforma costituzionale che vorrebbe appunto dare più forza almeno al capo del Governo.

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