Ieri il Senato ha approvato l’articolo 1 del ddl Meloni-Casellati: la facoltà del presidente della Repubblica di nominare fino a un massimo di 5 senatori a vita è stata abrogata. È la prima modifica alla Costituzione vigente proposta dal ddl costituzionale che intende introdurre il premierato elettivo.

Ma nel disegno di legge continua a brillare un’importante assenza, quella di una riforma dei partiti politici. A spiegarlo è Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento e docente alla LUISS di Roma. Fare una buona legge sui partiti sarebbe il primo vero interesse della maggioranza, perché solo dai partiti, e non da nuovi automatismi, dipende la stabilità dei governi.



Professore, partiamo dall’abolizione dell’istituto dei senatori a vita.

È senza dubbio un fatto positivo. Può essere un buon inizio. Non rispetto a quanto previsto dal ddl di riforma, ma nella direzione di una riflessione più matura.

Ci spieghi meglio la sua posizione.

Il laticlavio a vita è un orpello sacrale del passato, inserito nella Costituzione del 1948 mutuandolo dallo Statuto Albertino. Faceva parte delle prerogative del sovrano. L’abolizione è un fatto positivo perché potrebbe essere l’occasione per parlare finalmente  di quello che avviene nella nostra prassi effettiva di governo, fuori da ogni infingimento retorico e da ogni richiamo meramente nominalistico alla “Costituzione più bella del mondo”.



La sua è una provocazione?

Fino a un certo punto. Bisognerebbe fare un esperimento: si riscriva la Costituzione desumendola esclusivamente da ciò che avviene oggi nella prassi politica tra Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale. E partiti politici.

Intende dire che sarebbe molto diversa da quella scritta dai costituenti?

Assolutamente sì. Può apparire paradossale, ma non lo è. E non sarebbe un esercizio inutile. Anzi, sarebbe il vero ante operam, il progetto vero che il Governo avrebbe dovuto intraprendere e non ha fatto. Insomma: parliamo ormai da troppo tempo di modifiche alla Costituzione scritta, avendo un sotteso che in molti punti qualificanti è già lontano da quella Costituzione scritta.



Prima o poi la riscrittura arriverebbe al Titolo II, cioè al presidente della Repubblica. Cosa troveremmo? 

Siamo passati da un presidente della Repubblica che non poteva fare esternazioni se non con accanto un ministro che ne assumesse la responsabilità, al ruolo, completamente extra-testuale, al quale assistiamo da trent’anni a questa parte. Dunque: che forma di governo abbiamo attualmente? È ancora una forma di governo parlamentare?

La sua risposta?

Siamo lentamente evoluti verso una forma di presidenzialismo, più forte del semi-presidenzialismo francese. Con la differenza che il nostro presidente della Repubblica non è responsabile, responsabile davanti al parlamento, si intende.

Il suo vero obiettivo, professore?

Solo facendo questo “esercizio” di riflessione potremo rispondere in modo costruttivo alla preoccupazione che mi pare stia al centro del ddl Meloni-Casellati, la cosiddetta “governabilità”.

Dove sta il problema?

Lo aveva già detto Mortati nei primi anni 70: abbiamo ecceduto con le garanzie e siamo stati carenti nelle funzionalità. Non mi sto inventando nulla, se dico che la struttura della forma di governo (parlamentare, nda) per come è scritta in Costituzione è lacunosa e debole: è piena di cose non dette, basta pensare al sistema delle fonti del diritto.

Quindi?

La revisione costituzionale vuole rafforzare la stabilità degli esecutivi, in modo da garantire la cosiddetta “governabilità”. Obiettivo legittimo. Ma qui c’è un punto meritevole di considerazione, che però mi pare trascurato.

Quale sarebbe?

La Costituzione attribuisce la sovranità al popolo, ma non come mera enunciazione di principio. Non si tratta di “derivare” le strutture di governo dalla collettività popolare, quasi poi dimenticandosi, appunto, che “la sovranità appartiene al popolo”. L’art. 1 stabilisce una vera e propria attribuzione di potere  da esercitarsi, si legge, nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Dunque, se non deve essere una mera “enunciazione di principio”, significa che la sovranità deve essere continuamente esercitata dal popolo. È corretto?

Sì. La sovranità popolare non è la mera legittimazione degli apparati di governo. Qui passa la differenza tra la democrazia “governata” e quella “governante”. La Costituzione vigente sceglie la seconda.

E come la attua?

Presupponendo, e volendo, che le scelte fondamentali di indirizzo e, soprattutto, la progressiva selezione di tali scelte si abbia già nell’ambito della collettività statuale. L’apparato, da parte sua, deve essere quanto più possibile prossimo al popolo e capace di recepirne l’indirizzo. Sotto questo profilo, l’art. 49 è clamorosamente chiaro.

L’art. 49 riguarda, ricordiamolo, i partiti politici.

Per questo la loro funzione è insostituibile. Il corpo elettorale è chiamato dalla Costituzione a tradurre, mediante il voto, gli orientamenti emersi e via via selezionati nel contesto del pluralismo politico, sociale ed economico. Cosa vuol dire “concorrere alla determinazione della politica nazionale”? Non all’orientamento, o alla legittimazione, ma alla “determinazione”. È un concetto fortissimo.

Che cosa ne consegue?

Solo i partiti, storicamente parlando, hanno consentito al voto di essere esercitato come atto finale di un processo che non rimane più confinato nell’irrilevante giuridico.

Ma è una via obbligata?

La Costituzione non impone una sorta di “organamento” della società, tuttavia prevede che il concorso alla determinazione della politica nazionale, oltre che con l’espressione del voto, possa esercitarsi, appunto, nella forma tipica dell’associazione in partiti politici. Ai partiti, anche in collegamento con i sindacati e con le altre organizzazioni del pluralismo, è rimesso il compito di rendere effettiva la “democrazia governante”.

E volendo fare a meno dei partiti?

In tal caso la rappresentanza politica rinuncia ad assumere i contenuti del mandato di cui parla l’art. 67 Cost. e rimane strumento di legittimazione di persone – gli eletti – mediante designazione. Non dovremmo sorprenderci che qualcuno poi si lamenti di ciò che la politica decide “sulle teste” dei cittadini.

Ma non si possono obbligare i cittadini ad iscriversi ai partiti.

Vero. Per questo serve una riforma, affinché sia effettivo, e chiaro ai cittadini, che il partito politico è strutturato ed agisce in modo tale da consentire l’esercizio del diritto di concorrere alla determinazione della politica nazionale. Il partito politico va disciplinato per legge, non può rimanere confinato nel diritto privato, proprio perché ha una funzione propria di elaborazione di indirizzi e di trasmissione di questi che si riflette su tutte le componenti della vita pubblica. Il cittadino deve sapere che associandosi in partiti effettivamente apporta non solo una scelta sulle persone, ma anche sui programmi.

Anche in tempi di mezzi non istituzionali o anti-istituzionali di espressione, come i social?

Ha detto bene: mezzi di espressione, infatti, non di rappresentanza, o al più di rappresentanza non istituzionale. Qui le strade sono due. O, per ipotesi, il social di Stato, ma sarebbe un gestore orwelliano della peggiore demagogia; oppure un partito che “traduca” i social in partecipazione politica. La recente esperienza politica ci dimostra che questa seconda opzione si è risolta in un inganno.

Sta parlando del Movimento 5 Stelle?

Certo. M5s è stato abilissimo nel far credere di essere sorto per gemmazione spontanea dalla crisi del sistema politico circostante. La definizione di “movimento” ha dissimulato una forma neo-partitica a conduzione non trasparente nella quale gli iscritti dovevano decidere tutto, ma si è poi scoperto che decidevano sempre meno.

Torniamo alla “governabilità”.

La riforma dei partiti è la vera precondizione sulla quale si gioca la stabilità dei governi, come dimostra tutta la nostra storia recente, nella quale a far cadere i governi sono state le crisi di coalizione. Una vera riforma dei partiti deve precedere ogni modifica possibile alla legge elettorale. Che come sappiamo, è stata troppo frettolosamente inserita nel nuovo art. 92 della riforma.

Come vanno d’accordo la stabilità politica – requisito della governabilità – e il divieto di mandato imperativo, cioè la libertà del parlamentare?

A mio avviso occorrerebbe vincolare i candidati eletti a fare parte del gruppo parlamentare corrispondente a quello del partito nelle cui liste siano stati eletti e ad attuarne il programma, con espressa previsione che il dissenso non possa legittimare il passaggio ad altro gruppo, ferma ovviamente la libertà del parlamentare di lasciare l’ufficio.

Il ddl non prevede una riforma dei partiti. È una lacuna emendabile? 

Sarebbe emendabile, ma nel contesto di metodo e di merito di una ben più ampia riforma.

(Federico Ferraù)

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