È iniziato in Commissione Affari costituzionali del Senato l’iter del ddl costituzionale di riforma del premierato. La discussione partirà domani con le prime audizioni degli esperti. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che fin dal suo insediamento invoca una democrazia “decidente” (ma Renzi ha presentato un ddl per l’elezione diretta del premier con poteri ancora più rafforzati) la scora settimana si è rivolta direttamente agli italiani, chiedendo se vogliono “contare e decidere o stare a guardare mentre i partiti decidono per voi”.
Ma così il problema appare mal posto, perché i partiti dovrebbero essere il vero architrave della riforma. Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano, lo ripete al Sussidiario da anni, proprio da quando il ddl Renzi-Boschi, sette anni fa, sembrò la traduzione legislativa di una ambizione altrettanto “decidente”, chiara negli intenti e pericolosa nelle soluzioni, e bocciata dagli italiani nelle urne.
Abbiamo interpellato Mangia per una prima disamina della riforma. Non un’analisi tecnica del ddl Meloni-Casellati, ma una messa a fuoco iniziale, a cominciare dall’opportunità di cambiare la forma di governo.
Sette anni dopo la bocciatura di una riforma costituzionale si torna a parlare di come cambiare la costituzione. Oggi lo fa una maggioranza politica di segno opposto. È giustificato un nuovo intervento sulla Carta costituzionale?
Per rispondere alla domanda conviene partire da lontano. Uno dei lati positivi del referendum Renzi del 2016 è stato il fatto che i discorsi sulla riforma costituzionale sono stati messi in soffitta per un po’ di tempo. Oggi si è aperto un altro capitolo di una vicenda che in realtà procede da molto più tempo, e cioè dalla Commissione Bozzi del 1983, quando il tema delle riforme, d’un tratto, venne fatto proprio dalla sinistra. Oggi, nel 2023, il discorso sulle riforme compie quarant’anni.
E se dovessimo trarre un bilancio?
Io direi che questo bilancio non può essere che negativo. Se si parte dal presupposto che l’obiettivo delle riforme dovrebbe essere la “stabilità” dei Governi, con la realizzazione di Governi di legislatura, è facile vedere che questo obiettivo è stato clamorosamente fallito nel 2016, con Renzi, e nel 2006, con Berlusconi.
Non sono stati gli unici tentativi. Possiamo accennare agli altri?
Le riforme del Titolo V e delle Regioni nel 2001 hanno destabilizzato il sistema dei rapporti tra Stato e Regioni. E quella del 2020, con quel tragico taglio dei parlamentari, ha reso ancora più difficile il lavoro delle Camere e indebolito il ruolo del Parlamento. Una riforma, questa, che ha ratificato la sfiducia dei cittadini nei confronti delle Camere e la complessiva perdita di autorevolezza dei suoi componenti. Una perdita di autorevolezza che procede dai tempi di Tangentopoli.
Conviene sottolinearlo, anche se lo abbiamo ripetuto molte volte: è da allora, e cioè dalla distruzione del sistema dei partiti di massa, che il sistema istituzionale è andato in malfunzionamento.
Sì. Ed è da allora che è iniziata la stagione degli “ingegneri costituzionali”, partendo dal presupposto che, cambiando qualche articolo della Costituzione, si potesse fabbricare una stabilità artificiale, che non esisteva nelle forze politiche reali. Dunque il cosiddetto premierato è solo l’ultimo capitolo di una vicenda antica. Come proposta ha i suoi limiti, ma non è delle peggiori.
Torno alla domanda: ha senso mettere nuovamente mano alla Costituzione?
Il ddl Meloni-Casellati, se non altro, ha il merito di non voler ristrutturare totalmente la Costituzione come nel 2016, ma si limita ad intervenire sul potere di scioglimento del Presidente della Repubblica, limitandone la discrezionalità. Il che a me pare un bene.
Perché?
Perché il ruolo del Quirinale, almeno dai tempi di Napolitano, si è enormemente dilatato. E l’esperienza dei Governi tecnici del Presidente, da Monti 2011 a Draghi 2021, è stata pessima.
Lei sta parlando di un riequilibrio del sistema istituzionale. Ma non è detto che l’intento dei proponenti vada d’accordo con la diagnosi corretta della crisi. Lei cosa dice?
Dico che il problema, oggi, non è tanto la stabilità dei Governi, quanto la circostanza per cui al Quirinale ci si sente ormai i tutori di ogni Governo, perché il Quirinale è il garante del “vincolo esterno”. E che in Corte costituzionale ci si sente ormai – e ci si propone all’esterno – come un legislatore improprio. Una terza Camera non eletta che sente il bisogno di andare in giro a spiegare sui giornali e nelle occasioni più disparate le ragioni delle sue decisioni. Ma è naturale.
Non tanto, si direbbe.
E invece sì, perché un sistema dei partiti debole non può che favorire queste assunzioni di ruolo. Il risultato è stata l’abnorme concentrazione di potere che si è realizzata durante il Governo Draghi, con la saldatura tra Quirinale e Presidenza del Consiglio. E con un sostegno uniforme della “buona stampa” che opera come un apparato di propaganda del Quirinale.
È la stessa buona stampa come strumento di governo di cui parlavamo di recente?
Proprio quella. A fare la forma di governo italiana, ormai, non sono più i partiti, ma i corsivi dei quotidiani la mattina, e gli eroi dell’infotainment televisivo la sera. È singolare che nessuno se ne sia accorto. E non si sia posto il problema del pessimo servizio che la “buona stampa”, diffondendo bestialità interessate, rende al sistema istituzionale.
Un esempio?
Ce ne sono tantissimi. L’ultimo l’abbiamo avuto sulla Commissione di inchiesta Covid, che è stata presentata dal Quirinale come un’anomalia destabilizzante, quando invece è soltanto normale attività delle Camere. Con annessa campagna stampa. Sembra davvero che non ci sia limite agli interventi del Quirinale.
Come definirebbe oggi il ruolo della presidenza della Repubblica?
Ha assunto sempre più spesso i caratteri di un “controgoverno” più che di un “contropotere”.
Dunque: crisi del sistema dei partiti e nuovi confini di fatto degli organi di garanzia, Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale. Che linguaggio parla il ddl sotto questo profilo? Quello della cosiddetta “ingegneria costituzionale” o quello della saggezza politica?
Ecco, quella tra “ingegneria costituzionale” e “saggezza politica” è un’ottima distinzione. Ma l’ingegneria costituzionale è entrata in scena quando è venuta meno la saggezza politica, non crede? E la saggezza politica è venuta meno con i partiti. Tenga conto che questo non è un processo solo italiano. Se va a vedere cosa succede in giro per l’Europa non c’è un solo sistema istituzionale che funzioni.
Facciamo un rapido esame della situazione. La Francia?
È additata da vent’anni come un modello da seguire, ma è in una situazione di tensione perenne. E il livello di consenso di Macron è ai minimi termini.
La Germania?
Sembrava l’altro modello di stabilità, ha un governo di una debolezza mai vista, con buona pace delle “sfiduce costruttive” che si vorrebbero importare dal almeno vent’anni.
In Spagna?
Per mettere assieme una qualche maggioranza, il Governo Sánchez ha bisogno delle amnistie degli indipendentisti catalani fuggiti all’estero.
Si è appena votato in Olanda.
Dopo le ultime elezioni, si prospetta la stessa situazione. E ci vorranno mesi per mettere assieme una maggioranza, secondo tradizione di quel Paese. Lei capisce che tutte le democrazie europee – tutte, nessuna esclusa – sono in una fase di malfunzionamento dopo il Covid e la guerra in Ucraina. Ritenere che le cose si risolvano riscrivendo qualche riga della Costituzione significa non aver capito le cause della crisi, che attraversa tutti i sistemi istituzionali europei.
Abbiamo capito che la crisi arriva da lontano. Da dove esattamente?
Sta nel fatto che le elezioni, più o meno in tutta Europa, servono solo a decidere chi dovrà attuare a livello nazionale ciò che si decide in sede europea. E cioè le varie Agende 2030 o le varie transizioni digitali, ecologiche e che altro. Questo distrugge la credibilità dei partiti, che prima chiedono il voto agli elettori per determinate politiche, e poi, quando vanno al Governo, si trovano ingabbiati in una serie di vincoli che li portano in tutt’altra direzione.
Non è il famoso “pilota automatico” di cui parlava Draghi qualche anno fa?
È evidente. Questo “pilota automatico” genera tensioni continue con gli elettorati nazionali. E ha come risultato il confinamento degli indirizzi politici nazionali negli interstizi di ciò che viene deciso a livello europeo. È questo il fenomeno che ha distrutto il rapporto fra eletti ed elettori in tutti i Paesi europei. Agisce ad un doppio livello.
Quale sarebbe?
L’indirizzo politico europeo neutralizza non solo le Costituzioni, ma anche gli indirizzi politici nazionali. E riduce le elezioni ad un rito di facciata. Prima questo indirizzo politico europeo era limitato ai vincoli di bilancio. Ora è fatto di “transizioni” e di “sfide”. Ed è anche peggio.
Il presidenzialismo-di-fatto vige in Italia dal 1994. Ed esercita una sua peculiare, impropria “forma di governo”. Dunque il ddl, ammesso che vada in porto, può essere il rimedio?
A rigore, con un Presidente eletto dal Parlamento non si può parlare di presidenzialismo. Se viene spontaneo farlo è solo perché il Quirinale è diventato un centro di potere mai visto prima in quanto garante nazionale dei vincoli internazionali. E si ha l’impressione che i Governi ormai siano “Governi del Presidente” o comunque Governi sotto continua tutela del Presidente. Questo non è un regime presidenziale, ma non succede in nessun sistema che si dica parlamentare. Ci rendiamo conto che prima della presentazione di questo ddl di riforma costituzionale ci si preoccupava dei rilievi del Quirinale? E della mancata firma del ddl di riforma?
Le reazioni sono state molto forti: diversi esponenti politici hanno parlato di ddl “eversivo”, che viola i principi fondamentali della Costituzione, eccetera. Secondo lei?
È lesa maestà pensare ad un ridimensionamento dei poteri del Presidente? Essi restano comunque enormi. In realtà è una riforma molto limitata, apprezzabile negli intenti – governi di legislatura; allineamento fra indirizzo elettorale e azione di governo; limitazione del potere di scioglimento; divieto di governi tecnici o del Presidente. C’è da chiedersi, piuttosto, se, una volta approvata, questa riforma conseguirebbe gli obiettivi che si prefigge.
Finalmente. E lei cosa risponde?
Sinceramente ne dubito. Ciò che non viene capito, ma potrei sbagliarmi, è che tutti questi espedienti sono destinati a perdere forza di fronte al principio del libero mandato parlamentare. Ma mi pare una buona cosa che questi punti siano stati tematizzati, e si stia uscendo dalla logica della perenne beatificazione del Quirinale imposta dai corsivisti della “buona stampa”. Che ha contribuito non poco all’instaurarsi del nostro parlamentarismo di facciata.
Scelga un “padre costituente”. Cosa penserebbe oggi, secondo lei, del disallineamento tra la Carta del ’48 e il trentennio del neo-presidenzialismo sui generis post ’94?
Credo che ogni deputato alla Costituente oggi proporrebbe di resuscitare il sistema dei partiti. Non c’è parlamentarismo che possa funzionare senza un sistema dei partiti efficiente.
Non è facile resuscitare qualcosa o qualcuno.
Un inizio sarebbe il ripristino del vecchio articolo 68 Cost. sull’immunità parlamentare. Che è stato l’inizio della fine. In secondo luogo l’introduzione di una legge sui partiti sul modello tedesco del 1967.
Motivandola come?
I nostri partiti hanno un troppo basso livello di istituzionalizzazione per funzionare e produrre una classe dirigente. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Senza partiti istituzionalizzati si è semplici collettori di voti, non fabbriche di classe dirigente. E in terzo luogo, il ripristino di un decoroso finanziamento pubblico. Non si può operare e produrre una classe dirigente senza mezzi materiali.
Infatti oggi i partiti vanno a chiedere mensilmente soldi ai propri eletti in Parlamento.
Vede? Manco fosse una tassa sull’elezione. Ma chi potrebbe seriamente proporre queste cose senza essere seppellito dagli improperi di quella “buona stampa” che vive ancora oggi, a trent’anni distanza, dei lasciti di Tangentopoli? E poi bisognerebbe pensare ad una riforma del processo costituzionale, che provi a riportare la Corte entro i binari della normalità.
In altri termini?
Che la riporti cioè al suo ruolo di giudice, non di attore politico che interviene sui giornali. Cosa vuole, io non riesco ad immaginarmi Elia o Paladin esibirsi in interviste a doppia pagina mentre sono ancora in carica. Anche questo è un grosso problema per il sistema, anche se non ce ne si rende conto.
(Federico Ferraù)
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