Che l’accademia italiana non ami le riforme in generale è storia nota. I costituzionalisti, in particolare, hanno da sempre manifestato diffidenza per le modifiche alla nostra Carta. Tutti i tentativi di cambiarla, dai tempi di Craxi passando per la bicamerale di D’Alema, fino alle riforme Berlusconi e Renzi sono stati accompagnati da appelli e richiami, più o meno militanti, che hanno chiamato la gente a guardarsi dalle decisioni del Parlamento (o in taluni casi, ad avallarle). Anche la riforma del premierato voluta dalla Meloni subisce la stessa sorte ed è oggi oggetto di un appello di 180 studiosi che supportano le preoccupazioni di Liliana Segre sul testo della riforma.



Spiccano i nomi di diversi presidenti della Consulta e di molti suoi componenti che con la loro presenza danno all’appello un tono diverso, più istituzionale. Come se ci fosse una sorta di benedizione informale che quelle personalità vogliono dare ai timori sulla riforma. Nulla si può intendere di più, ovvero che vi sia un sorta di silenzioso assenso del Colle, ma nessuno può negare che la presenza di firmatari così eccellenti non è e non può essere ignorata.



Il testo dell’appello è una generica bocciatura di tutta la riforma, che presenta talmente tante criticità, a detta di chi lo ha scritto, da non essere neppure parzialmente ricevibile. In pratica un’ibridazione tra sistema parlamentare e presidenziale, con l’aggravante del “solito” premio di maggioranza che darebbe forza poietica a chi vincesse anche di poco le elezioni.

Va ricordato che il premio di maggioranza previsto nel famigerato Porcellum venne dichiarato incostituzionale proprio da quella Corte i cui componenti firmano l’appello. Ed ora che si vorrebbe inserirlo nella Carta, per tagliare la testa al toro, appare indigesto. Riuscirà questo “partito del Quirinale” (da intendersi come sede della Consulta) a fare il suo lavoro ed affossare la riforma?



La risposta è nella storia delle riforme. La Meloni ha bisogno di una bandiera politica che dia legittimità alla sua visione dello Stato. Le serve per i suoi elettori e per i suoi scopi. Non pensa agli italiani come popolo, ma alla sua destra ed al suo consenso. Ed ha in animo di spingere la riforma verso l’inevitabile referendum, come acconto dello scontro elettorale, in modo da poter testare l’umore del Paese. Perciò lei non si fermerà.

Ma cosa faranno i cittadini stavolta è difficile da dire. Per troppe volte non è cambiato nulla, e molto del voto alla Meloni, come a Grillo o Renzi prima, è stato un voto per il “cambiamento”, mentre il “sistema Italia” appare vivere, agli occhi di questi elettori, un blocco decisorio quasi insuperabile. Chiunque stia al Governo deve mediare e gestire, ma tra vincoli di bilancio, maggioranze eterogenee e contrappesi istituzionali poco si può fare. Ed allora il rischio è che la Meloni possa trovare sulla sua rotta vento favorevole.

Molto dipenderà in realtà dai prossimi mesi. Se la presidente del Consiglio esce politicamente bene dalla partita dei commissari europei ed ottiene la flessibilità che serve per fare la manovra di bilancio senza tasse o tagli, la luna di miele con i moderati continuerà. Diversamente, sarà lei a staccare la spina. Non ha nessuna intenzione di fare una legge di bilancio lacrime e sangue. Se invece dovrà subire la sconfitta in Europa e la conseguente necessità di governare senza poter fare deficit, andrà diritto a casa, per sua scelta, e con lei il referendum.

Nel dubbio su quale sia lo scenario – pensa qualcuno – meglio portarsi avanti e schierare le truppe istituzionali in prima linea, chiarendo chi sta con chi. Una prova di forza e di avversione alla maggioranza che non può esser letta come un rigurgito tecnico, bensì come una chiara posizione politica. Il deep state, come lo chiama la Meloni, le sta dando lo sfratto e non accetta che le regole vengano cambiate senza il consenso di chi conta. Solo che, per ora, è il Parlamento a decidere e gli elettori a confermare o respingere, ed il peso di quelle forze in quei consessi è minimo. L’appello appare quindi più come una sorta di via libera a chi, fuori dal Paese, non vuole la Meloni a Palazzo Chigi e sa che la vera leva per farla fuori non sono 180 firme e una senatrice a vita, ma che basta chiudere, motivatamente, i cordoni delle borse della Bce e dell’Ue per farla andare via. Come accadde con Berlusconi. Ed il rischio che si ripeta appare molto concreto. Nulla accade per caso nelle profondità del potere, neppure la firma di un appello.

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