Circola in queste ora la notizia di una bozza di riforma costituzionale della forma di governo, da tempo oggetto di discussione pubblica analogamente all’attuazione del regionalismo differenziato. Si tratta di due riforme che dovrebbero viaggiare in parallelo: l’ultima è già al vaglio della Commissione Affari Costituzionali del Senato, a seguito del cosiddetto ddl Calderoli; l’altra è pronta per essere esaminata dal Consiglio dei ministri, che si riunirà venerdì 3 novembre, e si appresta conseguentemente ad approdare – anch’essa – in Parlamento.



I contenuti della riforma costituzionale sono per ora noti solo tramite agenzie di stampa e quindi necessitano di essere valutati compiutamente a seguito dell’effettiva presentazione del disegno di legge. Secondo le prime indiscrezioni non ufficiali, i tratti fondamentali del testo riguarderebbero: il premierato (ossia l’elezione diretta del Presidente del Consiglio), una norma cosiddetta “antiribaltone” – senza toccare l’impianto della fiducia, neppure tramite l’inserimento della sfiducia costruttiva – e un vincolo alle scelte del Presidente della Repubblica, sia al momento dell’insediamento del nuovo Governo sia nel caso in cui si presentino delle crisi di governo. A tale impianto si affiancherebbe l’eliminazione della prerogativa del Presidente della Repubblica relativa alla nomina dei senatori a vita.



Non è il caso, in questa sede, di entrare nel merito di quanto si va profilando, nella consapevolezza di quanto siano importanti gli aspetti di dettaglio al fine di poter identificare il senso e la concreta direzione della riforma. Pertanto, in assenza di tali elementi, è d’obbligo non eccedere in commenti, negativi o positivi che siano.

È opportuno ricordare, invece, sin d’ora, nell’auspicio di un sereno e appassionato dibattito sul tema, che la forma di governo di un Paese poggia essenzialmente su tre pilastri: le norme costituzionali e convenzionali esistenti, il sistema dei partiti e, non ultimo, il sistema elettorale. Al variare di uno (o più) di questi elementi varia anche, di conseguenza, la caratura della forma di governo, che assume una fisionomia che andrà progressivamente modellandosi sulla base delle contingenze storiche, economiche e politiche che attraversano la società e, quindi, il popolo sovrano. La fisiologica mutevolezza di tali condizioni estrinseche suggerisce o persino impone, con riferimento a possibili aggiunte o modifiche costituzionali, di domandarsi come queste ultime possano incidere sulla vita del Paese e sulla sua effettiva “governabilità”.



Nonostante lo scetticismo di alcuni, preoccupati per una possibile reformatio in peius o, addirittura, per possibili torsioni autoritarie, non pare possano sussistere dubbi circa la necessità di una riforma nel nostro Paese, che deve compiere lo sforzo di adeguare il funzionamento delle proprie istituzioni alle condizioni di contesto in cui è chiamato ad operare. Del resto, il valore della democrazia risiede proprio nella possibilità di determinare, con il consenso e la legittimazione popolare, le migliori condizioni affinché la nostra Repubblica possa assolvere efficacemente ai propri compiti. Una sfida tutt’altro che semplice alla quale la politica (e non soltanto la maggioranza) è opportuno che non si sottragga, assumendo una corretta postura costituzionale nell’interesse del Paese.

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