Caro direttore, sono sostenitore da sempre di una Repubblica presidenziale e considero il premierato solo un parziale surrogato della via maestra, ovvero che siano sempre i cittadini ad eleggersi direttamente il vertice della propria nazione, così come ad ogni livello amministrativo.

Fosse per me, andrebbe votato direttamente sia il Presidente della Repubblica che il premier, eventualmente pre-indicato da un gruppo di liste di appoggio sulla stessa scheda elettorale, ma con la possibilità anche di un voto disgiunto (come avviene per eleggere il sindaco) nel caso ritenessi valida una persona ad essere primo ministro (pensate ad un tecnico) anche se non fosse espressione del mio personale schieramento politico.



Una riforma abbastanza pasticciata come quella che si delinea non mi piace per niente e temo che la Meloni ci si impantanerà, anche perché c’è quest’assurda sindrome di “lesa maestà” con la paura (strumentale) di intaccare la figura ed i compiti dell’inquilino del Quirinale che viene dipinto come un re taumaturgo, intoccabile e salva-problemi, ma che invece, alla prova dei fatti, è oggi espressione politica di parte e come tale si comporta, appena scalfita la patina del formale “super partes”. Ciò valeva per tutti i suoi predecessori e non solo per Mattarella, che al momento buono, se proprio deve uscire con una parola chiara su un argomento, quasi sempre riecheggia quella di chi lo ha eletto, soprattutto la prima volta, ovvero la voce del Pd.



Ma torniamo al premierato, contro il quale si è schierata la senatrice a vita Liliana Segre, che deve avere tutto il nostro rispetto per quello che ha passato e che rappresenta, ma che non è – come alcuni amano dire e scrivere – “la più autorevole esponente del Parlamento”, soprattutto quando afferma che una riforma come il premierato “riecheggia Mussolini”, il che mi pare decisamente eccessivo.

Ma se parla la Segre si deve tacere, dentro e fuori i sacri confini, e così – in un articolo del Times britannico, giornale del gruppo Murdoch – la riforma costituzionale voluta dalla Meloni è stata accostata al nome del dittatore fascista. Nel pezzo in questione, firmato dal corrispondente Tom Kington, le critiche della Segre alle possibili riforme costituzionali sono diventate il pretesto per una descrizione decisamente parziale della situazione politica in Italia.



“Giorgia Meloni ha in programma di rivedere la Costituzione per dare maggiori poteri ai futuri leader italiani, sostenendo che l’attuale sistema lascia i primi ministri in preda a complotti di partito”, ha scritto il quotidiano britannico (e fin qui è acqua calda) ma citando poi le stroncature della senatrice a vita scrive che la regola del premio di maggioranza “riecheggia una legge introdotta da Benito Mussolini, il dittatore fascista, per darsi più potere”. Il riferimento è alla legge Acerbo, citata in un passaggio del discorso della Segre, introdotta nel 1923 dal Duce.

A parte il fatto che quando fu votata quella legge i fascisti in Parlamento erano una minoranza, appare strano che un giornale come il Times non sia riuscito a comprendere le ragioni della riforma proposta dal Governo Meloni. Eppure lo stesso sistema di governo del Regno Unito prevede un modello che attribuisce all’esecutivo enormi poteri, delineando di fatto un sistema bipartitico nel quale chi vince ottiene un mandato forte per far approvare senza difficoltà le proprie proposte legislative e dove il leader del principale partito è automaticamente anche il primo ministro.

Ricordiamoci tra l’altro che la Gran Bretagna ha un sistema politico di fatto bipolare, mentre in Italia (vedi proprio il caso delle prossime elezioni europee) c’è uno stuolo di partiti, partitini e movimenti vari che – senza freni e sbarramenti – genererebbero solo una grande confusione e soprattutto l’ingovernabilità.

È quindi un po’ forzato che la Segre si presti a questi giochi, perché l’accostamento Meloni-Mussolini è ridicolo e la stessa Segre lo sa benissimo, mentre proprio la senatrice, così facendo, si presta a diventare, da senatrice a vita, giudice dei buoni e dei meno buoni, dove i cattivi sono sempre quelli che non piacciono ai giornali o nelle stanze che contano.

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