Si torna a parlare di riforme costituzionali, visto che il Governo ha finalmente messo in campo il proprio disegno di legge di riforma della forma di governo, imperniato sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri. E mentre i costituzionalisti discutono del testo e delle idee che esso riverbera, l’intervento del Presidente del Senato butta benzina sul fuoco della discussione sostenendo che il vero scopo della riforma sarebbe un ridimensionamento del ruolo dei Presidente della Repubblica.
Che dire in proposito? Al di là delle molte considerazioni sull’opportunità di tale intervento, su cui non è il caso di pronunciarsi, non vi è dubbio che esso apra uno spiraglio su cui occorre soffermarsi, visto che poi il disegno di legge costituzionale predisposto dal Governo dovrà passare al vaglio del Parlamento e forse anche a quello dell’elettorato tramite referendum. E quest’ultimo è tanto eventuale quanto probabile, visto che difficilmente si potrà approvare un testo con la maggioranza, non facile da raggiungere, dei due terzi del Parlamento.
Quali potrebbero essere, dunque, i presupposti per una discussione non solo reattiva?
Il primo presupposto riguarda l’origine del problema, quel sistema parlamentare “razionalizzato” che i costituenti hanno costruito per evitare gli eccessi del parlamentarismo, con un Presidente della Repubblica a fare da trait d’union tra Parlamento e Governo, notaio o semaforo che dir si voglia. Costruire una forma di governo che funzioni non è facile: le difficoltà in cui versano le democrazie europee lo dimostrano ampiamente, a partire da quanto accade oggi in Spagna e in Germania, ma anche in Francia e in Belgio. Non fu facile neppure per la penna dei Padri costituenti. Prova ne è che alcuni istituti da loro disegnati (vedi i meccanismi relativi alla sfiducia) non hanno mai funzionato: non c’è impianto costituzionale che non debba fare i conti con la costituzione materiale e, soprattutto, con il sistema dei partiti che lo interpreta e lo applica. Crisi di governo extraparlamentari sono state all’ordine del giorno; forse anche per questo ieri e oggi si parla di bypassare i partiti con l’elezione diretta, che funziona al momento delle elezioni, ma che deve poi fare i conti con il resto delle istituzioni democratiche, salvo che non se ne determini la scomparsa.
Il secondo presupposto è dato dalla figura del Presidente della Repubblica: disegnata sulla falsariga del Re della monarchia costituzionale, ha per lungo tempo avallato l’idea di un Presidente “che non può far male”, i cui atti sono “tutti” controfirmati, senza volontà e, quindi, interamente spersonalizzato, privo della capacità di fare scelte autonome, quand’anche imperniate sullo scopo, costituzionalmente orientato, di “far funzionare le istituzioni”, con poteri silenti in tempi ordinari ma capaci di espandersi in momenti di crisi istituzionale o politica. Molto altro si potrebbe dire in merito, ma non è questa la sede. In questa sede va dato atto che la figura istituzionale del Presidente della Repubblica si è evoluta su queste basi costituzionali o, come è stato detto, “ha esondato”. Se la metafora fluviale ha un senso, si è trattato dell’uscita da argini alquanto fragili, per non dire inesistenti. E le plurime crisi hanno fatto il resto, a partire dalla crisi della politica, che porta un tasso di responsabilità quanto mai alto.
Pensare di chiudere la partita con una storia così complessa tramite un disegno di legge costituzionale di poche righe o con qualche dichiarazione altisonante è quanto meno inadeguato. Tutti vi hanno contribuito – nel bene e nel male – e, dunque, la predisposizione dei rimedi deve essere un po’ più attentamente pensata.
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