Gli amici lo chiamavano Ruga ed è stato il primo reporter italiano a morire durante un conflitto nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Questo però non è bastato per ricordare la figura di Almerigo Grilz, nato a Trieste ne 1953 e morto il 19 maggio 1987 a Caia in Mozambico mentre si trovava con i ribelli della Renamo, dopo aver raccontato, dal 1982 in poi, le guerre in Libano, Afghanistan, Birmania e Thailandia, Iraq e Iran, Cambogia e Vietnam, oppure in Etiopia e in altre nazioni ancora. Teatri di guerra nei quali ha realizzato servizi per televisioni americane, per il TG1, ma anche per testate quali Il Sabato, Panorama, Avvenire, fino al Sunday Times e al settimanale francese l’Express. Il suo nome, però, non è stato sufficientemente ricordato, probabilmente anche a causa dei suoi trascorsi politici di militante del Fronte della Gioventù e del MSI.



Oggi un premio alla memoria (voluto dall’Associazione Culturale Amici di Almerigo) vuole riproporre la sua figura, dando riconoscimenti a giornalisti giovani che si sono segnalati per il racconto in prima persona delle guerre che anche oggi segnano il pianeta. Un modo per non dimenticare che il giornalismo non può fare a meno dell’uomo che sta dietro il taccuino, la macchina da presa o quella fotografica. Il presidente della giuria, di cui fanno parte, tra gli altri, Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti, Peter Gomez, Gian Micalessin, Fausto Biloslavo, Giovanna Botteri, è Toni Capuozzo, giornalista e inviato di guerra. A lui Il Sussidiario ha chiesto chi era Almerigo Grilz e il senso del premio. I vincitori verranno svelati oggi, 20 maggio, in mattinata (11.30) a Palazzo Lombardia mentre in serata (alle 19) la premiazione si terrà al Teatro dell’arte-Palazzo della Triennale.



Chi era Almerigo Grilz e che cosa ci insegna la sua storia umana e professionale?

L’unico insegnamento vero è che per raccontare un conflitto bisogna osservarlo da vicino: un approccio che a Grilz è costato la vita. Oggi verranno assegnati i premi e per coincidenza uno sarà per Franco Di Mare, che a questo punto purtroppo sarà alla memoria. Una sorta di premio alla carriera.

Grilz ha documentato guerre in mezzo mondo, in Africa e Asia soprattutto. Perché un premio alla sua memoria?

Io non l’ho conosciuto, ma mi sono battuto perché non fosse dimenticato a causa dei suoi trascorsi politici. È stato il primo giornalista italiano morto in zona di guerra dal secondo conflitto mondiale in poi, ma il suo nome era stato depennato dalla lista dei giornalisti italiani caduti al fronte perché era un militante e un attivista del Fronte della Gioventù e dell’MSI. Non condivido in nulla il suo passato politico, sono antifascista, però non posso far finta che, a causa del suo passato, non si ricordi che è caduto non un militante di destra ma un giornalista. Negli ultimi anni, tra l’altro, aveva abbandonato totalmente l’attività politica per dedicarsi al giornalismo.



Se dovesse lavorare oggi, si troverebbe ad avere a che fare con una realtà molto diversa da quella in cui agiva negli anni 80. I giornalisti vengono esclusi dal campo di battaglia o uccisi, come sta succedendo a Gaza, se vogliono andarci comunque. Come è cambiato il modo di raccontare le guerre?

È cambiato molto. Oggi i giornalisti lavorano molto di più sui comunicati degli stati maggiori. È molto più difficile e raro, anche perché molto più rischioso e costoso, il lavoro sul terreno, in solitudine, senza essere né embedded né foraggiati, appunto, da qualche stato maggiore. Il racconto della guerra dal basso è un mestiere difficile, poco esercitato.

Tra i lavori di Grilz, che ha raccontato guerre dall’Afghanistan alle Filippine, fino al Mozambico, ce n’è qualcuno per cui ha guadagnato la notorietà o per il quale è stato più apprezzato di altri?

Ha fatto molti lavori del genere, si è occupato in particolare di guerre dimenticate in Estremo Oriente e in Africa. C’è una retorica delle guerre dimenticate, ma quando si va a raccontarle si fa finta di niente. Anche oggi si fatica a parlarne. È come se non ci fossero. Grilz aveva venduto servizi a NBC, CBS, network americani, operando, appunto, nelle Filippine, in Birmania, in diverse nazioni africane, oppure occupandosi di guerre più conosciute come quelle dell’Afghanistan e del Libano.

Che tipo di servizi sono stati presi in considerazione dalla giuria e come è avvenuta la selezione?

Il criterio è quello di premiare il giornalismo sul campo, giovane, anche se oggi a 35 anni si è ancora un giornalista giovane. Si vuole mettere in evidenza un giornalismo che racconti il più crudamente e realisticamente possibile i conflitti, senza imbracciare bandiere e abbracciare ideologie, cercando di essere parte della sofferenza della gente comune da tutti i lati della guerra. Senza essere, insomma, cosa che succede molto spesso oggi, parte di una tifoseria.

Quali media danno spazio oggi a questo tipo di servizi? Chi presta ancora attenzione a queste storie dimenticate?

Anche alcuni dei premiati credo che facciano fatica a tirare la fine del mese, lavorano quasi tutti come freelance e prendono rischi in prima persona, pure dal punto di vista economico. Non è una clausola del concorso quella di essere freelance, ma di fatto chi partecipa appartiene a questa categoria.

(Paolo Rossetti)

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