Con una recentissima sentenza, la n. 26246 del 06/09/2022, la Cassazione si è pronunciata su una questione molto spinosa, che da circa 10 anni divide i tribunali di merito, ossia quella della prescrizione dei diritti del lavoratore.
La prescrizione è un modo di estinzione dei diritti, conseguente all’inerzia del titolare per un certo periodo di tempo, la cui ratio riposa sulla tutela della buona fede e della certezza del diritto. Nel campo del diritto del lavoro, già dagli anni ’60/’70, il tema della prescrizione dei diritti dei lavoratori è stato oggetto di diverse sentenze della Corte costituzionale, i cui esiti di seguito un po’ sommariamente si riassumono: la Consulta ha evidenziato che, nel corso del rapporto, il lavoratore potrebbe essere dissuaso dall’esercitare i propri diritti per timore di un licenziamento; alla luce di questa osservazione, sono state dichiarate illegittime quelle norme che consentivano il decorso della prescrizione (e dunque l’estinzione dei diritti) in pendenza del rapporto per quei rapporti non assistiti dalla stabilità del posto di lavoro.
In altri termini, le sentenze cui si è accennato hanno disposto che i diritti del lavoratore si prescrivono per le aziende assistite dalla tutela reintegratoria prevista dall’articolo 18 della legge n. 300 del 1970 (nella formulazione antecedente al 2012) o nel pubblico impiego o comunque per tutti i rapporti di lavoro per i quali la tutela accordata in caso di licenziamento consentiva il ripristino del rapporto. Per le altre aziende (in sostanza, quelle di piccole dimensioni), la prescrizione decorreva dal momento della cessazione del rapporto, perché in corso di esso il lavoratore, nel timore di perdere il posto di lavoro, non avrebbe rivendicato alcun diritto pur leso dal datore.
Dopo il 2012, con la legge n. 92 (la c.d. riforma Fornero) e ancor di più con il decreto legislativo n. 23 del 2015 (uno dei provvedimenti del c.d. Jobs Act), la reintegra del lavoratore (sia per le piccole che per le grandi imprese) in caso di licenziamento illegittimo è stata conservata in alcuni casi specifici di particolare gravità (tra i quali anche in quello del licenziamento ritorsivo), ma nella generalità dei casi la tutela accordata al lavoratore è di tipo indennitario. Dunque, si è posto un dubbio per le imprese di dimensioni maggiori: la prescrizione può decorrere nel corso del rapporto, essendo venuta meno la reintegra come sanzione tipica?
Ora, secondo alcuni giudici, il forte ridimensionamento della tutela reintegratoria ha come conseguenza che anche nelle grandi imprese si debbano adottare le cautele previste per la piccola: la prescrizione non decorrerebbe nel corso del rapporto e, inoltre, a partire dai cinque anni precedenti all’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012 (visto che la stragrande maggioranza dei diritti del lavoratore si prescrive in cinque anni), i lavoratori possono rivendicare, ad esempio, differenze retributive per un erroneo inquadramento, o il pagamento di straordinari, ecc. Altre corti hanno invece ritenuto che, essendo stata conservata anche dopo il 2012 la tutela reintegratoria in caso di licenziamento ritorsivo, il lavoratore non sarebbe soggetto al timore di un licenziamento nel caso faccia valere i suoi diritti: e dunque questi si prescrivono nel corso del rapporto ed egli può avanzare pretese solo per i cinque anni precedenti a quelli in cui esercita tali rivendicazioni.
Analogamente, fra gli studiosi del diritto c’è stato chi ha sostenuto la prima posizione, chi quella opposta.
L’opzione fra le due, come è intuitivo, ha conseguenze non di poco conto: se si aderisse alla prima posizione, il datore di lavoro di una grande impresa dovrebbe temere sempre, anche a distanza di molti anni (e dunque con seria difficoltà di rintracciare mezzi di prova idonei a contrastare le avverse pretese), che un lavoratore possa ad esempio rivendicare differenze retributive; o viceversa, un lavoratore dovrebbe avere l’accortezza quantomeno di interrompere la prescrizione dei suoi diritti, ma con ciò esponendosi a possibili conseguenze sul rapporto di lavoro.
Entrambe le posizioni hanno delle ragioni solide.
Su questo quadro molto sinteticamente descritto è intervenuta la sentenza della corte n. 26426.
I giudici di cassazione hanno affermato che il timore del lavoratore, in presenza del quale non può decorrere il termine di prescrizione, è collegato non tanto all’inesistenza (o meno) di una tutela reintegratoria per i licenziamenti ritorsivi, quanto piuttosto alla conoscibilità (sia da parte del lavoratore che del datore) della sussistenza della stabilità del rapporto e dunque della conoscenza del momento del tempo a partire dal quale il lavoratore possa (liberamente) esercitare i suoi diritti.
Secondo la Cassazione, le riforme intervenute hanno comportato «il passaggio da un’automatica applicazione […] della tutela reintegratoria e risarcitoria in misura predeterminabile con certezza» a una «applicazione selettiva delle tutele», nella quale la reintegra ha assunto un carattere recessivo.
Per tale ragione, anche nelle imprese che soddisfano i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, co. 8 e 9, della l. n. 300 del 1970, il termine di prescrizione dei diritti del lavoratore decorre dal momento della cessazione del rapporto. E, per i rapporti in corso alla data del 2012, i lavoratori potranno agire rivendicando pretese sino a cinque anni prima dell’entrata in vigore della c.d. riforma Fornero.
Una tale sentenza, ai cui contenuti probabilmente per anni si adegueranno i tribunali di merito, nell’immediato porterà a un incremento del contenzioso e nel lungo periodo imporrà alle aziende un maggiore rigore nella gestione dei rapporti di lavoro.
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