Il tema della prescrizione, invero assai complesso e molto tecnico quindi di non facile divulgazione se non in termini populistici, sta riattizzando l’eterno focolaio della giustizia. Sia all’interno della maggioranza di Governo, sia nelle stesse aule giudiziarie, in questi giorni deserte per l’astensione proclamata dai penalisti contro l’imminente entrata in vigore della norma che paralizza il decorso del tempo della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Fino a un paio di giorni fa, anche la magistratura si proclamava in fermento fino a che il ministro non ha ridimensionato la paventata riforma del metodo elettorale del Csm, escludendo il temuto sorteggio (criterio indubbiamente discutibile ma che sicuramente avrebbe stroncato il fenomeno correntizio).
Per i meno addentro alle vicende del mondo giudiziario, va ricordato che il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado faceva parte dell’originario provvedimento passato alla storia come legge “spazzacorrotti” ma fu congelato negli effetti per volere della Lega che ne impose l’entrata in vigore differita al 1° gennaio 2020, subordinandolo alla riforma complessiva del processo penale. Riforma, manco a dirlo, che allo stato non solo non ha visto la luce ma, benché concepita, non ha ancora trovato una base di condivisione all’interno della maggioranza ed è quindi stata a sua volta congelata in attesa di tempi migliori.
La confusione regna quindi sovrana e forse val la pena provare a fare un pochino d’ordine, soprattutto a favore dei non addetti ai lavori.
Non vi è chi non ritenga come nell’attuale panorama processuale la costante “moria” degli accertamenti penali per mano della prescrizione costituisca un problema cui mettere mano. Come spesso accade, il rimedio proposto appare assai peggiore del male.
Il punto da cui prendere le mosse è la constatazione che l’attuale disciplina fonde e confonde in un unico compasso cronometrico il tempo dell’inerzia e il tempo dell’intervento giudiziario. Così disciplinato, l’istituto della prescrizione appare “in difficoltà di senso”. Il nostro codice penale, nel cui ambito è disciplinata la prescrizione, risale al 1930 e in questi quasi 90 anni di sua vita gli scenari sono notevolmente mutati. Non solo quindi quell’istituto era concepito a fronte di un processo inquisitorio che conosceva tempi di gestione ben diversi, ma soprattutto la mole di notizie di reato e la relativa attività di indagini sono del tutto mutati. Ciò su cui dovrebbe focalizzarsi il vero confronto fra le parti politiche invece di rincorrere slogan a favore delle piazze è quindi la presa d’atto che oggi giorno non si può continuare a confondere il trascorrere del tempo che occorre per l’emersione della notizia di reato con lo svolgimento delle indagini, con il tempo che occorre per l’accertamento giudiziale, sottoposto al principio del contraddittorio e allo scrupoloso rispetto dell’oralità.
Non vi è una sola delle tradizionali giustificazioni politico-criminali sottese alla prescrizione, che possa valere sia per la prescrizione maturata prima del processo, sia per quella maturata in itinere iudicii. Occorre quindi risolvere questa ambiguità vocazionale distinguendo, come del resto avviene, pur con soluzioni anche sensibilmente diverse, in molti Paesi europei a noi vicini, la durata della punibilità dalla durata dell’accertamento giudiziario. Ovvero la prescrizione del reato dalla prescrizione del processo. Diversi sono la ratio, gli interessi in gioco, la tecnica di tutela, gli effetti, il parametro di commisurazione del decorso del tempo. Un conto, infatti, è la funzione di stabilità sociale che può essere svolta dalla non perseguibilità di fatti ormai lontani nel tempo; un conto è l’interesse della persona accusata di un reato ad essere giudicata entro un determinato termine.
Qui occorre comprendersi al meglio. La prescrizione del reato “certifica” l’oblìo della collettività rispetto a fatti pregressi; la prescrizione del processo, la non ulteriore protraibilità della pretesa punitiva nei confronti di un soggetto, atteso che dopo un certo lasso di tempo l’accertamento del fatto-reato è ritenuto minusvalente rispetto al pregiudizio recato all’imputato dall’ingiustificato prolungarsi del procedimento giudiziario.
D’altronde, i due fenomeni sono differenti anche in ordine alle conseguenze del loro operare: la prescrizione del reato produce un effetto preclusivo erga omnes; la prescrizione del processo soltanto nei confronti dell’imputato. Come affermato nell’ambito dei lavori che circa 10 anni fa la Commissione Riccio portò a termine con una proposta di legge delega mai approdata in Parlamento per la caduta del Governo Prodi, il tempo della punibilità è un tempo cronologico, un tempo vuoto o, meglio, indifferente a tutto ciò che si materializza durante il suo fluire (indifferente, in particolare, alla condotta dei soggetti interessati); un tempo, il cui strumento di misurazione è il calendario. Il tempo dell’agire giudiziario è invece fenomeno giuridico – scandito dall’interazione dei protagonisti, dal susseguirsi di fatti interruttivi e sospensivi – il cui strumento di misurazione è la norma. Il tempo della prescrizione del reato scorre in modo lineare e costante, mentre quello del processo in modo discontinuo, conoscendo pause e riprese.
La sequenza attuale “periodo di base aumentabile di un quarto per l’intervento di fatti interruttivi”, dunque, salda tra loro realtà eterogenee con esiti oramai insostenibili per il sistema oltre che principalmente per le persone offese. Si tratta di un’incongruenza che deve essere rimossa, perché dove manca la razionalità più facilmente si annidano l’arbitrio e l’ingiustizia.
Diversa sarebbe la situazione, se il processo avesse una sua autonoma durata legale, costante, pur nel variare – del tutto casuale – del momento di avvio.
Non si tratta quindi di portare avanti una battaglia di opportunità contro il blocco della prescrizione affinché il sistema resti come è adesso configurato. Al contrario, occorre che si comprenda da parte dell’opinione pubblica, francamente spesso mal informata, che la piaga della prescrizione la si supera intervenendo in modo razionale sul sistema, introducendo un istituto come quello della prescrizione processuale in grado di restituire razionalità ed efficienza al sistema. Se l’Italia può “vantare”, in ambito europeo, il maggior numero di proscioglimenti per prescrizione ma anche il maggior numero di condanne da parte della Corte di Strasburgo per irragionevole durata dei processi, non crediamo possa dubitarsi della necessità di un intervento strutturale che tuttavia non crei, come farebbe l’attuale proposta grillina, unicamente degli eterni giudicabili, senza badare se essi siano dei condannati o degli assolti in primo grado. In ambo i casi, gli eterni giudicabili sarebbero condannati al girone dei dannati.
La ferita sociale del delitto può essere sanata in due modi: con la cicatrizzazione del tempo o con la “sutura” della risposta giudiziaria. La prima evenienza ricorre quando l’apparato giudiziario non sa, non vuole o non riesce ad intervenire: dopo un certo numero di anni la società valuta più funzionale alla stabilità sociale l’oblìo, piuttosto che la riesumazione dell’evento (prescrizione del reato). Quando, invece, prima che maturi la prescrizione del reato, gli organi giudiziari deputati promuovono l’accertamento della responsabilità, imputandola ad un soggetto determinato, non c’è più spazio per l’“amnesia” estintiva del reato: la collettività vuole “ricordare” e giudicare.
Ma ciò non può avvenire per un periodo indefinito: l’accusato ha diritto di conoscere il responso giudiziario in un tempo congruo, decorso il quale, il giudice deve emettere un provvedimento di non doversi procedere (prescrizione del processo). È facile comprendere poi come il diritto a conoscere il responso giudiziario definitivo sia ancora più sentito da parte dell’assolto che, in virtù di un legittimo appello da parte del pubblico ministero, potrebbe davvero correre il rischio di attendere anni e anni prima che un secondo giudice certifichi quella assoluzione. Non crediamo francamente che sia questo lo scenario verso cui un paese civile ritenga di voler compiere i propri passi.