Colpisce che in vista di questo Natale nella ormai secolarizzatissima Milano sia stato proposto in un luogo laico un presepe vivente: lo ha organizzato ogni giorno feriale a partire dal 5 dicembre il Teatro Franco Parenti negli spazi della contigua piscina dei Bagni Misteriosi. La regia era di Andrea Chiodi, protagonisti dei giovani attori che interpretavano i versi della Lauda della Natività di Jacopone da Todi. Colpisce ugualmente leggere su una doppia pagina del più importante quotidiano nazionale un lungo articolo di Roberto Saviano che tesse un elogio sincero del presepe, del suo significato e del suo valore umano e sociale. Chiodi non è certo nuovo ad esperienze di questo tipo perché ogni anno organizza una rappresentazione della Natività in piazza San Vittore a Varese con centinaia tra comparse e coristi (e davanti a qualche migliaio di spettatori). Saviano da parte sua racconta quale segno profondo abbia lasciato in lui l’esperienza del presepio costruito ogni anno da suoi nonni paterni: “Era su quattro piani e riempiva un’enorme stanza … da questa esperienza familiare nasce la mia sregolata passione verso l’arte presepiale”. Saviano naturalmente fa riferimento a quella versione “aumentata” del presepe che è proprio della grande tradizione napoletana: tradizione che è entrata nelle nostre case, allargando la rappresentazione a tanti dettagli della vita circostante.
Questi due casi offerti dalla cronaca offrono spunti per una riflessione che ben s’addice ai giorni natalizi che stiamo vivendo. C’è ad esempio da chiedersi perché questo dispositivo di narrazione tanto semplice e artigianale faccia ancora breccia in donne e uomini nutriti ogni giorno dalla cultura dello scetticismo. Forse una ragione plausibile è questa: il presepe propone il racconto di un fatto accaduto, anzi in un certo senso lo fa riaccadere grazie al cuore di chi puntualmente ogni anno si mette all’opera per costruirlo. E tutto questo senza troppe preoccupazioni di ordine morale o anche dottrinale (c’è sempre una sana anarchia nel presepe…).
Ma c’è una seconda chiave di lettura che può spiegare questo permanere del presepe in una società così distante dai valori che il presepe stesso esprime. Ne fa cenno Saviano elencando alcune delle statuine che la consuetudine ha reso presenze tradizionali senza che siano necessarie alla narrazione di quel fatto accaduto nella grotta di Betlemme. Questo allargamento della platea dei personaggi è percepito come un allargamento che tocca e coinvolge in modo inclusivo anche la platea “scettica” dell’osservatore di oggi: ognuno può sentirsi nelle condizioni di essere parte del racconto, visto che ha trovato spazio, come presenza fissa, anche quella del pastore – Benino è il suo nome – che nonostante il richiamo dell’angelo continua ostinatamente a dormire.
La dilatazione della scena proposta dalla tradizione del presepe napoletano in forme a volte quasi fantasmagoriche, comunica anche un’altra dimensione che ci riguarda da vicino. Mentre Gesù nasceva a Betlemme, non è che il mondo si fosse fermato. Il presepe ci racconta che, tolto il caso di pochi testimoni, la vita attorno era continuata nella sua normalità: la massaia lavava i panni, la tessitrice filava la lana, il pescatore continuava a pescare, il panettiere a infornare. In questo modo ci viene restituita la dimensione concreta della perifericità e povertà di quel fatto accaduto a Betlemme. E nello stesso tempo ci vien detto che non c’è “indifferenza”, oggi come allora, che non possa venire abbracciata dalla nascita di quel Bambino.
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