La prima grande litigata che io ricordi avvenne attorno al presepio di casa, a sei anni. Con mio fratello iniziavamo a costruirlo ai primi giorni di dicembre, sotto la supervisione tecnica dei nonni. Quella sera avevamo finito di costruirlo, posizionando le statue in modo tale che guardassero in direzione di Gesù. Che, poggiato nella sua culla, illuminava la costruzione.
L’indomani, appena sveglio, mi accorsi che, di notte, la nonna aveva tolto la statua più bella: il Bambino. Per protesta non andai alla scuola materna: perché mia nonna, se proprio voleva rubare, non aveva tolto un’altra statua?
Lei, tutta d’un pezzo, non si scompose. Mi lasciò sfogare poi, con calma sopraffine, mi prese tra le sue braccia: “Sai perché l’ho tolta? – mi spiegò con la tenerezza che era il suo tratto tipico – Gesù nasce fra venti giorni, non subito”. Le chiesi, com’era prevedibile, il perché del ritardo: “Vuol farsi desiderare da te Gesù”, mi disse con la letizia sulle labbra.
Farsi desiderare da me: mai, fino ad allora, avevo legato Dio al desiderio. Dal giorno in cui la nonna mi rubò il Bambino, costruire il presepio è per me una sorta di corteggiamento a Dio. Gli preparo un paese, organizzo una compagnia, tra il muschio e le stelle gli faccio trovare una festa. Poi, attendendolo, sento nel cuore tutto l’incantesimo e l’asprezza del desiderio: “Quanto manca a Natale?”.
Ogni anno, in Avvento, sul presepe saettano tuoni, fulmini. C’è chi lo vuol fare a tutti i costi, scordando che desiderare è un affare del cuore e non della legge. E c’è chi, ossessionato dal voler andare d’accordo con tutti, è disposto a zittire la sua memoria bambina, lasciando le statuine dentro gli scatoloni.
Quest’anno la cosa buffa è che il Papa ha giocato d’anticipo sui primi, mettendo il silenziatore ai secondi: “(Il presepe) è davvero un esercizio di fantasia creativa (…) Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti – ha scritto nella bellissima lettera spedita da Greccio, terra dove san Francesco inventò questo bel segno –. Il suo modo di agire quasi tramortisce: sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi”. Sotto sotto è come se il Papa dicesse alla gente: “Non scordate il presepe, quest’anno: mi raccomando”. Il motivo è presto detto: è un segno, “Admirabile signum” l’ha definito il Papa. Ogni segno, però, ha tre facce, come ci insegnano a scuola: è dimostrativo, cioè riguarda il presente; è commemorativo, in quanto ricorda un passato ed è prefigurativo, in quanto addita al futuro. Ieri, oggi, sempre.
È così piccolo, il segno del presepe, da starci ovunque: dal guscio di una noce alla maestosità di Piazza San Pietro, passando per il caos delle carceri. Costruendolo, è come leggere un promemoria: “Quella volta è accaduto così”. E scorgere che anche questa stavolta è identica alla prima volta: identico l’uomo, identico Dio.
Qualcuno, anche quest’anno, darà voce ai contrasti: “Siete ipocriti a fare il presepe, con il Mediterraneo ridotto a cimitero”. Il mare è davvero così. Proprio per questo, però, il presepe è d’obbligo farlo: perché, facendolo, ci salti all’occhio il divario tra la storia sognata da Dio e quella costruita dall’uomo. Il Bambino, nel frattempo, arriverà per ultimo: aveva ragione la nonna. Per dire al mondo che ad alloggiare meglio non è il primo che arriva ma il più desiderato.