MINNEAPOLIS – Tulsa, Oklahoma, prima grande uscita, lancio della campagna presidenziale di Donald Trump. Il primo “Rally”, come li chiamiamo qua. Non ho ancora abbastanza confidenza con i canali che la cable tv mi offre qui in Minnesota, così mi devo affidare alla solita, faziosa come sempre, ma capace ed onnipresente Cnn. Sono le sette e poco più di sera e Trump sale sul palco. Deve essersi appena lavato le mani dopo aver strangolato Geoffrey Bergman, potente US Attorney di New York (ovvero il capo della giurisdizione federale nello Stato di New York), colpevole di non smetterla di perseguire alcuni collaboratori del Presidente invischiati in faccende – diciamo così – poco chiare.
Trump non si smentisce e imboccando la sua solita scorciatoia mette tutti spalle al muro: o come me o fuori dai piedi. Così rotola anche la testa di Bergman. Che ad azionare la ghigliottina sia stato William Barr, Attorney General, o Trump stesso poco sposta, perché è chiaro che questo è il regime dalle ferree regole di fedeltà ed obbedienza che Trump ha instaurato.
Ma torniamo a Tulsa. Le elezioni presidenziali sono sempre più vicine e chi vuol vincere si deve dare una mossa. Tulsa rappresentava per Trump l’inizio della nuova marcia verso la Casa Bianca. Covid o non Covid, con mascherine o senza, nella testa del Presidente non c’era niente di meglio che un raduno in grande stile nel cuore del paese per dimostrare la forza e la vivezza dell’ideale (fare l’America di nuovo grande) e l’indomabile fedeltà del popolo nei confronti del condottiero. Ma in un paese così grande come l’America perché scegliere Tulsa, Oklahoma?
Proprio in queste ultime due settimane la percentuale di contagi in Oklahoma ha raggiunto livelli da record. Non sarebbe stato il caso di sospendere l’evento o trasferirlo altrove piuttosto che raccogliere migliaia di individui che come unica difesa immunologica hanno il fatto che in larga misura al virus non ci credono neanche? Migliaia di persone da ogni angolo del paese, un giorno a Tulsa e poi via, back home portandosi dietro – God forbid – quell’infezione che credono non esista.
Guardo la tv e vedo migliaia di persone assembrate dentro e fuori del Bok Center. Scordiamoci pure il social distancing, la mascherina, prendiamo pure la temperatura all’ingresso e non preoccupiamoci degli asintomatici perché in ogni caso – come affermano con fervore alcuni partecipanti al microfono degli uomini Cnn – “anche mi ammalassi prendo quel ‘chlorine’ e guarisco…”. “Guardi”, osserva l’intervistatore con mascherina, “che gli scienziati ci dicono che non è cosi” ….. “Si sbagliano, funziona” replica impassibile il tizio.
Ma Tulsa Oklahoma non significa solo una sfacciata sfida al coronavirus ed un affronto al buon senso. Tulsa significa anche una delle pagine più buie nella storia di questo giovane paese, una tragedia di quasi cent’anni fa. Il primo giugno 1921, prendendo a pretesto delle presunte molestie di un giovane di colore verso una ragazza bianca, in questa terra rossa di Oklahoma si scatenò la furia razziale di migliaia di uomini che portò all’uccisione di tanti african-american (si parla di 300), ed alla totale distruzione del Greenwood District, quella parte di Tulsa dove l’uomo nero era riuscito a costituire un’isola di libertà e di prospero business che continuava ad attirare famiglie di colore da tutto il paese. Tutto venne raso al suolo, tutto finito. Questa è storia che non si studia, e per tanti americani il Tulsa massacre è stata una scoperta di questi giorni. Chissà, forse neanche Trump ne aveva mai sentito parlare. Ma sono certo che Brad Parscale, Campaign Manager del Presidente, lo avesse ben presente. Provocazione? Fate voi.
Certamente a Tulsa Trump non ha fatto nulla per ricucire questo paese strapazzato. Tutt’altro. E probabilmente avrebbe fatto anche peggio se il trionfo di popolo fosse stato maggiore. Certamente sabato la folla era imponente, ma il Bok Center non era affatto pieno, e quei buchi qua e là sulle tribune facevano pensare ai passi rabberciati ed incerti di questa Amministrazione rispetto alla gravità di questi tempi.
Meglio lo sconsiderato radunarsi di migliaia di persone in piena pandemia o quelle finestrelle pop-up di Facebook dove da qualche giorno appare Biden che chiede di aiutare la sua campagna, con una faccia che sembra che stia per scoppiare in lacrime da un momento all’altro?
Eppure ognuno al fondo cerca la stessa cosa, ognuno, come cantava Leonard Cohen, cerca “in my way, to be free”, di essere libero. A modo suo.
Così siamo messi. Male. Speriamo che qualcuno cominci a porgere la mano al fratello che la pensa diversamente.
Cominciamo a porgerla noi.
God Bless America!