Il 2024 vedrà due fondamentali scontri elettorali: le elezioni europee tra il 6 e il 9 giugno e martedì 5 novembre le presidenziali americane che hanno tutti gli ingredienti per diventare la più assurda, colorata e forse agitata delle contese. Da una parte un presidente uscente “cotto” come Joe Biden, che per tutti i sondaggisti ha scontentato gli elettori, ma che dovrebbe avere come antagonista il più divisivo dei candidati, quel Donald Trump che ogni giorno riempie le cronache giudiziarie e mondane vivendo di eccessi e polemiche.
In campo democratico c’è imbarazzo e preoccupazione: non si può che candidare un presidente uscente (soprattutto quando anche la sua vice Kamala Harris non ha entusiasmato e quindi non può sostituirlo), ma la candidatura Biden è spenta e poco convinta, oltretutto offuscata dagli scandali politico-finanziari del suo entourage familiare. Se un candidato alternativo potrebbe essere il governatore della California Gavin Newsom, o Biden si ritira (e ad oggi sembra non avere alcuna volontà di farlo) magari motivando la scelta per motivi di salute, o non ci sarà partita: il candidato democratico sarà lui. Dall’altra parte c’è Donald Trump, il contestatissimo e divisivo ex presidente che non ha perso un giorno nel quadriennio per dare spettacolo, litigare, accusare tutti ed essere al centro di mille controversie giudiziarie. Un Trump irrefrenabile, polarizzante, che sommerge ogni altro potenziale avversario interno repubblicano, ma che – candidandosi – darà proprio ai democratici l’unico vero leitmotiv di campagna elettorale: una “chiamata alle armi” per la necessità assoluta di sbarragli la strada “per il bene del paese e del mondo” tentando di richiamare al voto ogni elettore democratico possibile, anche quelli più scettici verso Biden.
Mancano ancora dieci mesi al voto ma la polemica è già totale e, negli ultimi giorni, ha toccato l’apice mettendo in dubbio la possibilità stessa di Trump di candidarsi alle elezioni visto che in alcuni stati (democratici) gli è stata negata la partecipazione già alle primarie repubblicane, ritenendolo responsabile dell’assalto a Capitol Hill di tre anni fa. Dopo il Colorado, anche il Maine infatti si è opposto alla sua candidatura e forse altri stati li seguiranno. C’è da dire che mentre in Colorado la decisione (già appellata da Trump) è stata emessa da una Corte statale, nel Maine è stata una scelta personale della segretaria di Stato Shenna Bellows (democratica) che si è appellata al terzo comma del 14esimo emendamento costituzionale “squalificando” Trump per presunta cospirazione.
La norma risale al 1868, quando – appena finita la guerra civile – i legislatori decisero di introdurre una clausola per impedire a “cospirazionisti e insorti” (leggi i “sudisti”) di avere un ruolo pubblico. Per questo in oltre un secolo e mezzo è stata applicata solo per il presidente della Confederazione sudista Jefferson Davis e il suo vice Alexander Stephens, peraltro poi amnistiati. Dal punto di vista giuridico è probabile che la Corte Suprema degli Stati Uniti alla fine darà ragione a Trump e non solo perché è a maggioranza repubblicana, ma perché, obbiettivamente, è forse un po’ esagerato considerare Trump un cospiratore quando metà America sospetta ancora oggi che il voto del 2020 in alcuni Stati potrebbe essere stato effettivamente inquinato; e non tanto durante lo scrutinio, ma – come sosteneva Trump – per le nuove leggi elettorali legate al voto per corrispondenza, poco controllabile e ancor meno “tracciabile”.
Importante e poco noto anche il dettaglio che in Colorado – Stato democratico e dove lo è anche la Corte statale – il voto contro Trump sia passato con un solo voto di scarto, a sottolineare che anche dei giudici democratici non hanno ravvisato gli estremi per una esclusione di Trump, così come è avvenuto (ma in Italia non lo ha scritto quasi nessuno) anche in Minnesota, Michigan, New Hampshire e California, Stati che – pur democratici – hanno ammesso Trump alle “primarie” rigettando i ricorsi contro di lui. Trump intanto ovviamente gongola, si tiene stretta tutta la scena gridando allo scandalo e al suo personale martirio, accusando i giudici democratici di essere pupazzi di parte. Nella pratica tiene così saldamente in mano il pallino delle primarie repubblicane dove, peraltro, nessuno sembra più in grado di insidiarlo.
Ma se Trump è fortissimo all’interno del suo partito (e avrà sicuramente in tasca la “nomination” se alla fine andrà alla conta) non avviene lo stesso nell’elettorato del GOP, dove solo una parte degli elettori lo vedono come ideale comandante in capo, e molti altri lo detestano sia per il carattere e l’estremismo del personaggio, sia perché rischia di mettere in forse una vittoria (quasi) certa contro Biden scatenando il conseguente aumento, per reazione, degli elettori democratici, così permettendo un possibile rimescolamento di carte, soprattutto se si astenessero dal voto, per protesta, anche dei repubblicani anti-Trump.
C’è da dire che i sondaggi danno oggi comunque Trump in testa contro Biden in 5 dei 6 Stati-chiave, quelli che di solito condizionano le elezioni, ma – appunto – poiché negli USA quasi metà dei potenziali elettori poi non votano, bisogna capire cosa succederà effettivamente il 5 novembre, al termine di una campagna elettorale che tutto sarà tranne che noiosa. È ancora aperta anche la questione del sistema di voto, che sembra premiare i democratici. Anche questa volta sarà permesso infatti il voto postale, in molti Stati anche con schede votate o almeno inviate dopo il 5 novembre. Un altro aspetto fonte di ulteriori polemiche, ma sul punto ogni Stato è libero di applicare una propria legge elettorale e quindi ogni decisione centrale non sarebbe comunque vincolante. In ogni caso, Biden o Trump che sia, pensare che la prima potenza al mondo sia domani in mano a uno di questi due quasi ottuagenari e discutibili personaggi, non può che lasciare molto perplessi.
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