Qualche giorno fa l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha pubblicato i risultati delle proprie rilevazioni sul livello della pressione fiscale nei Paesi aderenti. I dati elaborati dall’Ocse hanno mostrato come la pressione fiscale registrata in Italia nel 2023 si sia mantenuta al 42,8% risultando, dunque, stabile rispetto all’anno precedente, ma in ogni caso ben al di sopra della media Ocse pari al 33,9%.



Il livello raggiunto in Italia non è da primato essendo la classifica guidata dalla Francia con il 43,8% seguita dalla Danimarca con il al 43,4%. Il dato italiano per livello di pressione fiscale ci colloca al terzo posto tra i Paesi aderenti all’organizzazione. Il mancato primato non deve indurre delusione, ma essere uno stimolo ad approfondire le ragioni del livello raggiunto dalla pressione fiscale.



Il tema delle tasse, infatti, desta sempre interesse e crea divisioni. Tutti vorrebbero abbassare la pressione fiscale, ma sempre e solo per la parte che pensano di rappresentare.

Nel formare la Finanziaria c’è chi ha proposto ancora una volta un taglio delle tasse per il ceto medio puntando a fissare nel 33% l’aliquota Irpef da applicare ai redditi sotto i 60mila euro. Dall’altra parte c’è chi punta il dito contro il mondo delle partite Iva colpevole sempre e comunque di essere composto da evasori. Dunque nulla di nuovo e appare impossibile trovare una mediazione.

Andando oltre nella riflessione occorre partire da come si misura la pressione fiscale, che, esemplificando, ma in linea con i criteri dettati dall’Eurostat, viene misurata dal rapporto tra gettito fiscale e il Pil. Inquadrato come si misura la pressione fiscale appare evidente come essa finisca per diventare un indicatore centrale che incide sul finanziamento della spesa pubblica. Senza dubbio alcuno va considerato come il finanziamento delle finanze pubbliche sia un tema non negoziabile che tuttavia non può finire per diventare un freno all’economia. Il fisco, infatti, persegue un fine redistributivo che però non deve raggiungere un livello tale da realizzare un effetto depressivo sull’economia.



Quest’ultima considerazione spinge a una riflessione sull’aspetto qualitativo che altrettanto dovrebbe evidenziare l’indicatore pressione fiscale che non pare sia stato indagato dall’Ocse. Il dato rilevato, infatti, è un dato medio che inquadrato nel panorama italiano apre a un interrogativo. Il calcolo, infatti, così come viene proposto è influenzato dalle aliquote ordinarie applicate sempre meno e da una miriade di imposte sostitutive, flat tax e cedolari, in media non superiori al 26%, sempre più diffuse.

Partendo da questa considerazione appare lecito chiedersi se si possa stimare, sul piano teorico, la pressione fiscale nell’ipotesi in cui si applicasse in maniera rigorosa, senza eccezioni, l’auspicata progressività fiscale prevista dalla Costituzione. Si potrebbe agevolmente presumere, senza presunzione di scientificità, che in Italia il livello della pressione fiscale finirebbe per essere quantificato a un livello di gran lunga superiore a quello rilevato dall’Ocse, che, dunque, finisce per essere un dato parziale.

Analogo risultato, ovvero una misura della pressione fiscale più elevata di quella misurata dall’Ocse, viene raggiunto dalle rilevazioni condotte depurando il valore del Pil dalla componente legata all’economia sommersa che per definizione non arreca alcun contributo alle casse dello Stato. In questo caso la stima, secondo la Cgia di Mestre, porta a misurare la pressione fiscale in capo ai contribuenti “onesti” in più del 47%.

Tutto da verificare sarà il risultato che si raggiungerà nel prossimo biennio, il quale sarà influenzato da una crescita del Pil inferiore all’1%, dall’azzeramento delle detrazioni fiscali riconosciute in dichiarazione (quelle legate ai lavori edilizi su tutte) e dal Concordato preventivo biennale.

Il combinato disposto del dato rilevato dall’Ocse e di quale sarebbe il livello della pressione fiscale in assenza delle diverse aliquote agevolate rende evidente perché la riforma fiscale sia un tema da affrontare senza indugiare. Il peso eccessivo della pressione fiscale sul ceto medio, quello che normalmente ha una propensione al consumo maggiore, impone di guardare oltre la riforma fiscale che non può essere svincolata da un efficientamento della spesa pubblica, azione alla quale pare si sia rinunciato.

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