È bastato l’invio sbagliato di un’immagine a tinte porno – che, data la sua volgarità, non trova giustificazione – per eccitare l’appetito del volgo rispetto alla figura del sacerdote: “Se si sposassero!”.

Il messaggio sottinteso è chiaro nella sua faciloneria: ogni cosa corrotta che esce con la firma di un sacerdote – dai gesti deplorabili di pedofilia all’omosessualità, passando per la corruzione, la negligenza, il sovrappeso – è la netta conseguenza del fatto che non possono sposarsi. Come se il matrimonio, piuttosto che un sacramento, fosse l’antidoto alla depravazione. Questo pensiero è un’immagine così lurida che, immagino, ad offendersi siano prima gli sposi che i sacerdoti: ci si sposa non per evitare la perversione, ma per tentare di realizzare un sogno comune di felicità. Di santità.



La fede è la storia d’amore con Dio: consegue che il cuore di ciascuno è la centrale elettrica di tale storia. Il cuore di un sacerdote, poi, è doppia centrale: alimenta la sua fede e con la sua fede gli vien chiesto d’alimentare la fede altrui. Il fatto, prima che rallegrare, spaventa per la sua arditezza: più che un privilegio è induzione alla responsabilità. Comprendere un cuore così è sfida impossibile umanamente. Rimane mistero a due: lo afferra nella sua verità solo (don) Giuda e il suo Dio, tutto il resto è letteratura che stordisce più che intonare. È peccare d’ignoranza sul mistero stesso della Chiesa maiuscola: “La Chiesa è una casa di famiglia e nelle case di famiglia le sedie talvolta mancano di un piede, i tavoli sono macchiati d’inchiostro e le scatole di marmellata si svuotano da sole nelle dispense” (G. Bernanos). Queste cose, chi le scrive, le intende per esperienza: per aver trovato vuote certe scatole, per avere contribuito a svuotarne altre.



Che ad un sacerdote, cammin facendo, capiti d’innamorarsi, sovente è più una grazia che una disgrazia: lo strazio di un cuore in allerta aiuta a rimotivarsi, a scegliere la realtà all’idea, la deficienza della strada all’asfissia da laboratorio. Conosco preti la cui santità anonima è passata attraverso una tormentata storia d’amore: ho scritto storia, non avventura, manco prostituzione. E l’amore – ch’è tutt’altra cosa dalla pornografia –, ancor di più l’amore di Dio, sa riciclare anche i tradimenti pur di riscattare il filo rosso di una storia andata, solo in apparenza, in frantumi. A farmi meditare è stato il commento lasciato da un lettore nel sito: “Se i preti si sposassero avrebbero la guardia a casa la sera: impossibile fare le scappatelle!” Lo giuro: non accetterei l’immagine dell’amore di costui manco se mi sciogliesse all’istante tutta l’agitazione del cuore. L’amore come prigione è la galera più atroce che un uomo possa scegliersi: certi miei uomini carcerati, solo a confrontarli, sono l’immagine più cristallina della massima libertà possibile.



Nelle mani del sacerdote, per una scelta avventata di Dio, traghettano l’Ostia e lo smartphone, il Vangelo e i giornali, la miseria e la misericordia: sono incrocio di terra e cielo, dovranno rimanere tali. Per non strangolare l’affettività – al netto del prezzo che pago, non esiste benedizione più grande degli affetti – il prete rischia di ustionarsi il cuore: il gioco vale tutta la candela. A patto di non confondere la castità con la castrazione: “Pensavo fosse amore, invece era un calesse”.