Tra i protagonisti in prima linea contro Coronavirus ci sono anche i preti: li ha ricordati naturalmente Papa Francesco, citando i sacerdoti insieme ai medici come i “nuovi crocifissi” del nostro tempo. Ma un riconoscimento se possibile ancora più significativo perché meno atteso è quello del New York Times, il celeberrimo quotidiano statunitense che ha dedicato un ampio reportage alla vita e all’operato dei sacerdoti italiani durante l’epidemia di Coronavirus. Ci sono quelli che agiscono letteralmente in prima linea, cioè negli ospedali: qui il dramma della morte è palpabile e il conforto religioso garantito da questi preti è davvero prezioso per i malati, per il resto privati di ogni compagnia dal momento che pure le visite dei parenti sono impossibili. Il New York Times ha parlato con don Claudio Del Monte, attivo presso l’ospedale di Bergamo, uno degli epicentri del dramma; Avvenire, il quotidiano della CEI, ha anche lanciato un hashtag #PretiPerSempre, per ricordare tutti i sacerdoti che sono già morti. Per Papa Francesco sono “i santi della porta accanto, che hanno dato la propria vita in azione”, perché spesso il Coronavirus ha colpito i sacerdoti anche fuori dagli ospedali.
PARROCCHIE, OSPEDALI, CARCERI: PRETI IN AZIONE
Sempre a proposito di Bergamo, il vescovo Francesco Beschi ha dato qualche numero: 24 preti morti in 20 giorni nella sua Diocesi, dei quali circa la metà erano ancora attivi in incarichi pastorali. L’azione dei preti praticamente in ogni parrocchia italiana assume in questi giorni molteplici aspetti: offrono sostegno e vicinanza tramite il telefono o Whatsapp, portano cibo a chi ne ha bisogno, assistono per quanto possibile i malati e i moribondi, anche se come ben sappiamo questa attività è diventata difficile a causa delle doverose norme di prudenza e contenimento del contagio. Questo è motivo di dolore per molti sacerdoti, che vorrebbero fare di più. Spesso dunque il pastore è forzatamante allontanato dal gregge proprio nel momento del maggiore bisogno. Il rischio d’altronde è alto: don Del Monte ha raccontato al NYT di don Fausto Resmini, che sempre a Bergamo era il cappellano del carcere, ha contratto il virus ed è morto il 23 marzo scorso. Storie di ordinario eroismo, potremmo dire: ma non è corretto, perché non si tratta di eroismo. Si tratta di vocazione: ogni sacerdote ha come esempio Gesù, che per le sue pecore ha donato la vita. La vicinanza a chi soffre dunque è un sacro dovere per i preti, a maggior ragione in una situazione di drammatica emergenza come quella dovuta al Coronavirus.
LO ZELO DI UNA CHIESA IN USCITA PER CORONAVIRUS
Molti preti sono chiamati a un difficile equilibrio tra la necessaria prudenza, anche per dare l’esempio di comportamenti corretti, e lo zelo della missione alla quale hanno donato la vita. Don Giovanni Paolini ha ormai 85 anni ed è di Pesaro, altra città dove il Coronavirus imperversa: “Stare a casa è la cosa giusta da fare – racconta al New York Times -, ma io sono un prete e talvolta è necessario infrangere la legge per andare incontro alle necessità della mia gente”. Don Giovanni dunque non esita quando c’è da indossare una maschera o altre protezione per fare visita ad anziani, ammalati, persone vicine alla morte o anche semplicemente impaurite e sole. “Scegli questa vita per essere utili agli altri”, è la semplice ma chiarissima spiegazione del sacerdote marchigiano. Papa Francesco spesso aveva invocato l’immagine di una Chiesa come ospedale da campo, ancora prima di Coronavirus: questa ne è la rappresentazione concreta, sullo stile dei sacerdoti di secoli fa, ad esempio nella Peste di Milano ricordata anche da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Rispettare la legge, ma avere anche il coraggio di uscire: questa è la sfida e la missione dei sacerdoti in Italia oggi.
“PORTARE CRISTO, NON IL CONTAGIO”: IL DRAMMA DEI PRETI
Papa Francesco vuole i sacerdoti “in trincea”, pur con le dovute precauzioni. Come ha sintetizzato monsignor Beschi: “Vogliamo portare Cristo, non il contagio“, perché naturalmente un prete che contrae Covid-19 diventa un potenziale pericolo per le persone con cui entrasse in contatto successivamente. Il telefono, Whatsapp e pure Instagram sono diventati strumenti pastorali, come ha detto al NYT don Gabriele Bernardelli, parroco di Castiglione d’Adda, uno dei primi paesi colpiti da Coronavirus. Si fa dunque il possibile, ma con rimpianti: don Gabriele non ha potuto vedere molti dei 67 parrocchiani morti negli ultimi 40 giorni e anche l’estrema unzione spesso avviene attraverso una mascherina e magari rimanendo solo sulla soglia della stanza dove si trova il malato. Negli ospedali, alcuni vescovi hanno assegnato a medici credenti il compito di fare almeno un segno di croce a quei pazienti in fin di vita per cui non fosse possibile fare di più.
LA LUCE DELLA RESURREZIONE “CONTRO” CORONAVIRUS
Don Claudio Del Monte non ha nascosto questo timore al New York Times: “Non solo possiamo contrarre il Coronavirus, potremmo anche trasmetterlo. Forse siamo asintomatici, e sarebbe un disastro”. Il sacerdote bergamasco ha raccontato anche i “funerali” in questo periodo, che naturalmente funerali non sono, ma solamente una veloce preghiera sulla bara di ogni defunto al cimitero. “Tre o quattro minuti, non di più”, è l’amara annotazione del reverendo, nell’impossibilità di fare di più. Ogni pomeriggio don Claudio si reca in ospedale, che fa parte della sua parrocchia: qui i bisogni sono molteplici. “Non cerchiamo la sofferenza, ma dobbiamo accettarla”. Ogni giorno si conoscono pazienti nuovi e qualche volta su un letto trova una lettera lasciata da un paziente che invece ce l’ha fatta ed è stato dimesso. Questa è la vita dei sacerdoti ai tempi del Coronavirus: potremmo dire più in generale dei religiosi, perché ci sono anche tante suore, frati e monaci che si spendono in iniziative di carità di ogni genere. La Via Crucis continua, con la speranza però nella luce della Resurrezione di Gesù: chi crede che la morte non abbia l’ultima parola, può portare a tutti questa luce nelle tenebre del dolore.