Le denunce, le procedure e le decisioni interne alla Chiesa, inerenti cause circa l’abuso di minori, non saranno più coperte dal segreto pontificio. La decisione storica di Papa Francesco arriva nel giorno del suo 83esimo compleanno e segna un altro punto di non ritorno nella politica della trasparenza, intrapresa dal pontefice su un tema che ha segnato profondamente la percezione della Chiesa fra le genti in questi primi vent’anni del ventunesimo secolo.



Eppure dietro la notizia c’è di più. Non mera dietrologia, come vogliono alcuni commentatori incapaci di leggere in profondità le decisioni del Papa, ma – ancora una volta – tensione educativa, desiderio di segnare un cammino per l’esperienza di fede di ciascuno.

Per capire a che livello si situi la decisione del Papa occorre fare un passo indietro e domandarsi perché la Chiesa abbia “inventato” il segreto pontificio. Il segreto pontificio nasce dalla convinzione che ci siano cose che debbano essere trattate solo da coloro che vivono un giudizio che sorge dalla fede. La Chiesa non può permettere a tutti di avvicinarsi a questioni delicate, che meritano uno sguardo che non è semplice empatia umana, bensì desiderio di riconoscere – anche nella vicenda più buia – l’impronta dello Spirito. La Chiesa chiede il silenzio per proteggere, rispettare e dare dignità a cose che, altrimenti, potrebbero essere trattate alla stregua di un pettegolezzo, mentre invece raccontano drammi e ferite.



Ebbene, questo segreto pontificio – nato per custodire lo sguardo di Cristo sulla realtáà – è stato spesso usato nel recente passato come strumento di potere e di interdizione alla giustizia umana di questioni ritenute proprie di una casta che si autogiudica e si autoprocessa.

È questa la rivoluzione – l’ennesima – che il Papa compie: togliere una misura nata per perseguire una forma carità dalla sfera del potere, del sopruso e della violenza. È come se il Papa ci spingesse a domandarci se gli usi e le consuetudini con cui trattiamo le questioni delicate e importanti nelle nostre comunità, sono usi e consuetudini a servizio della verità, a vantaggio della carità, o non sono altro che forme omertose di preservazione del potere, e di ostinata procrastinazione di un giudizio chiaro, su quanto è accaduto – e ancora oggi accade – dentro la vita della Chiesa.



Francesco ci invita a non avere nulla da nascondere, nulla da difendere, nulla da ritenere superiore alla giustizia degli uomini, restituendo fiducia all’umanità e affidando alla stessa umanità che gli abusi hanno ferito la responsabilità di emettere un giudizio giusto e di acclarare come anche dentro la Chiesa il proprio grido non è stato inascoltato.

Infatti col segreto pontificio moltissime vittime non sapevano neppure quali provvedimenti – a volte più gravi e pesanti di quelli civili – erano stati adottati dalla Chiesa per i carnefici: tutto era avvolto da un silenzio che non portava a domandare l’amore di Cristo, ma che apriva la strada al mal pensiero, alle insinuazioni, ad una percezione di Chiesa come casta e fortino inaccessibile.

Così, a pochi giorni dal Natale, Bergoglio ha voluto farci un altro dono, il dono di essere un po’ più liberi perfino da quello che ci protegge, dalle procedure che abbiamo stabilito, chiedendo a ciascuno di noi se il nostro modo di vivere le dinamiche della comunità ci apra all’incontro con Cristo o – piuttosto – non miri semplicemente a perpetrare ciò che abbiamo già deciso essere vero ed essere giusto. Un nostro potere, un nostro possesso, un nostro modo di sottrarci alla sequela semplice di Uno che nasce per noi e che ci vuole tutti liberi. Tutti autenticamente disponibili a guardare in faccia la Verità.

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