Secondo l’Economic Outlook dell’Ocse diffuso ieri, “la ripresa globale sta continuando, ma il suo slancio è diminuito e sta diventando sempre più squilibrato”. I rischi per l’economia non vengono solo dall’andamento dei contagi da Covid-19, ma anche dall’aumento dei prezzi dell’energia e della materie prime che si riflettono sull’inflazione. Per il nostro Paese, l’organizzazione di Parigi prevede una crescita del Pil del 6,3% quest’anno, del 4,6% nel 2022 e del 2,6% nel 2023.
Colpisce che mentre le stime sul 2021 per l’Italia sono state rialzate (dal +5,9% di settembre), a livello globale sono state invece riviste al ribasso (dal +5,7% al +5,6%). «Tutti i previsori hanno sbagliato. Hanno tutta la mia simpatia, perché bisognerebbe poter fare le proiezioni quando si hanno gli elementi necessari, non a data fissa. In ogni caso questo ci dice quanto siamo in difficoltà a prevedere le cose», ci dice Mario Deaglio, Professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino, pensando anche alla “retromarcia” di Jerome Powell sulla transitorietà dell’inflazione.
Da che cosa dipende questa difficoltà?
Principalmente dal fatto che il tipo di economia che abbiamo attualmente non è precisamente uguale a quelli di prima. Si utilizzano, quindi, serie di statistiche che sono state pensate per periodi in cui la situazione era molto diversa.
Per quanto sia stata rivista al rialzo, la previsione sull’Italia parla di un +6,3% quando la crescita acquisita indicata l’altro giorno dall’Istat alla fine del terzo trimestre è pari al +6,2%. Significa che il nostro Paese ha raggiunto l’apice della spinta alla crescita?
Sì, perché praticamente il nostro è un recupero, per quanto rapido e fatto bene: una volta concluso, i problemi di crescita che avevamo già sperimentato oltre quel livello riemergono. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è un onesto tentativo di andare avanti, ma non basta. È necessario, ma non sufficiente.
Cosa ci vuole allora?
Dal punto di vista dei numeri, dell’economia, ci vorrebbe una visione almeno decennale su cosa vuole essere questo Paese. Non possiamo puntare su tutto, non possiamo solo andare dietro ad altri, occorre che cerchiamo di dire cosa vogliamo fare.
Questo è possibile anche se siamo nell’Ue e quindi ci sono scelte prese da Bruxelles, come per esempio sulla transizione ecologica?
Sì. Anche se va anche detto che non ho visto altri Paesi europei esprimere una chiara visione sul loro futuro.
Il problema dell’Italia resta quindi quello di essere ancora lontana dai livelli pre-2008?
È così. Il Pnrr ci aiuta, ma non abbastanza per uscire da una sorta di pantano. Per usare un’immagine, ci consente fisicamente di fare in modo che i tetti delle scuole non crollino, ma questo non è sufficiente: occorre anche decidere cosa insegnare in queste scuole e in che modo. Non ho visto purtroppo nel dibattito delle forze politiche e nemmeno sociali qualcuno che provi a fare un discorso di questo tipo. Anche i sindacati rivendicano tutto e subito, sembrano essere ancorati a una schema vecchio, come vecchie sono le statistiche usate per le stime sulla crescita che si rivelano poi sbagliate.
Secondo l’Ocse, la Cina nel 2022 e 2023 crescerà del 5,1%. È finito il periodo delle percentuali da record per Pechino?
Pechino ha avuto una grande finestra di opportunità che è durata 20-25 anni e l’ha sfruttata bene, ma ora questa finestra si sta chiudendo. La situazione in prospettiva non appare florida per la Cina, in particolare dal punto di vista demografico.
Questo ha delle conseguenze anche per chi in Europa ha puntato sull’export in quell’area?
Fino a un certo punto, perché molta gente in Cina si è abituata a un livello di reddito in cui c’è posto anche per il cibo italiano piuttosto che per l’auto tedesca. Pechino non andrà verso la catastrofe, ha trovato il modo di avere materie prime a buon prezzo dall’Africa e ha cominciato a delocalizzare in Paesi limitrofi alcune produzioni a basso valore aggiunto.
Rispetto ai rischi evidenziati dall’Ocse, l’Italia sembra ben messe sul fronte pandemico grazie ai vaccini. È più esposta di altri per quel che riguarda l’inflazione e i rincari di materie prime ed energia?
Difficile da dire, ma mi sentirei di azzardare che siamo un po’ meno esposti degli altri. Questo per due motivi, cui ho già accennato in una precedente occasione. Abbiamo le materie prime energetiche sulla porta di casa, grazie a oleodotti e gasdotti che arrivano direttamente da noi. Chiaramente se ci fosse una crisi mondiale avremo i nostri problemi, ma non più degli altri. Inoltre, possiamo contare su una catena di distribuzione dei prodotti che, anche grazie ai piccoli negozi di quartiere, è piuttosto flessibile e in grado di assorbire, almeno in parte, gli aumenti dei prezzi senza scaricarli interamente sui consumatori.
(Lorenzo Torrisi)
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