L’Istat ha diffuso ieri le prospettive per l’economia italiana nel 2022-2023, che contengono una stima per il Pil di quest’anno pari al +2,8% e al +1,9% per quello dell’anno prossimo. «Numeri un po’ bassi, tenuto conto che dopo il +0,1% del primo trimestre certificato dallo stesso Istat la crescita acquisita per il 2022 è già pari al +2,6%», ci dice Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, il quale nel documento dell’Istituto nazionale di statistica ha trovato anche un dato «che mi ha lasciato piuttosto perplesso».
Quale?
Tra le previsioni sulle principali variabili internazionali si trova una stima sul prezzo del petrolio Brent pari a 101,4 dollari al barile sia per il 2022 che per il 2023: già oggi, però, siamo intorno ai 120 dollari e la tendenza non sembra essere al ribasso.
Questo dato è così importante?
Sì, per almeno due motivi. Il primo è che sappiamo bene quanto sia importante il costo dell’energia per la dinamica produttiva e quella inflattiva, che incide poi sui consumi. Il secondo è che un Paese europeo molto vulnerabile alle variazioni dei prezzi energetici è la Germania, che è anche il nostro principale partner industriale. Se, quindi, il costo del petrolio non diminuirà, le difficoltà tedesche comporteranno anche un rallentamento della nostra economia.
L’Istat spiega che “nel biennio di previsione, l’aumento del Pil sarà determinato prevalentemente dal contributo della domanda interna”…
…E andando a vedere le stime sulle principali componenti del Pil mostra anche che il contributo principale verrà dagli investimenti fissi lordi, a loro volta “trainati dalle costruzioni”. Ora, questi investimenti non sono certamente nocivi, ma se il boom del settore immobiliare prosegue in una sorta di nicchia dorata, legata ai tassi di risparmio che restano elevati per le fasce di reddito più alte, c’è il rischio che ci si ritrovi di fronte a una mini-bolla.
Non si può certo far affidamento su questo tipo di investimenti per una crescita solida.
Esattamente. E, infatti, considerando che secondo l’Istat la domanda estera netta resterà piatta (-0,4% nel 2022 e +0% nel 2023), come pure la spesa delle Amministrazioni pubbliche (+0,5% nel 2022 e +0,6% nel 2023), la dinamica del Pil sembra seguire il calo della spesa delle famiglie residenti (+5,2% nel 2021, +2,3% nel 2022 e +1,6% nel 2023) e degli investimenti fissi lordi (+17% nel 2021, +8,8% nel 2022 e +4,2% nel 2023). Bene quindi il superbonus al 110%, ma la spinta che fornisce al Pil è “one shot”. Occorrono pertanto più investimenti produttivi, che diano continuità alla crescita, tramite maggior innovazione e produttività, generando così occupazione, reddito e spesa interna.
Lei alla fine in questi dati vede più il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?
Non c’è molto spazio per l’ottimismo in un momento in cui il clima di fiducia delle famiglie residenti, come scrive l’Istat, è sotto 100. Se l’inflazione resta stabilmente alta, c’è il rischio che ciò impatti negativamente sulle aspettative. Queste stime economiche di fatto ci dicono che stiamo andando verso una crescita lenta, un po’ asfittica. Devono essere gli interventi di politica economica a cercare di modificare questo quadro tendenziale.
In che modo?
Secondo me, con provvedimenti che, in modo incisivo, modifichino le aspettative delle imprese e quindi anche delle famiglie. Bisogna mettere in campo interventi esemplari che diano una chiara indicazione sul fatto che si sta facendo qualcosa di buono, come per esempio invertire la rotta dopo anni di continuo arretramento dei livelli salariali italiani rispetto al resto d’Europa. Un intervento di questo genere aiuterebbe la domanda interna e quindi la ripresa. Credo che sarebbe importante in particolare intervenire in alcuni settori, come l’istruzione e la sanità, per aumentare la qualità del servizio tramite le retribuzioni. C’è un’ultima considerazione che credo sia opportuno fare su queste previsioni.
Quale?
Queste stime indicano con chiarezza le conseguenze non solo delle ripercussioni sull’economia del conflitto in Ucraina, ma anche della divaricazione tra Europa e Stati Uniti: dall’altra parte dell’Atlantico c’è stata una ripresa persino troppo rapida.
Vuol dire che l’Europa deve fare di più per sostenere l’economia?
Sì. Biden l’ha fatto fin troppo negli Usa, basterebbe una via di mezzo, cominciando anche a concepire la domanda interna come domanda di tutte le famiglie di tutti i Paesi membri dell’Ue.
(Lorenzo Torrisi)
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