L’area euro nel 2020 crescerà in media dell’1,2%, ma l’Italia, fanalino di coda, sarà l’unico paese che non riuscirà a superare l’asticella dell’1%. E’ l’amaro verdetto che ha emesso la Commissione Ue nelle sue stime economiche d’inverno: quest’anno il Pil italiano subirà ancora una limatura (+0,3%, anche “a causa di un effetto negativo di trascinamento”, rispetto al +0,4% delle precedenti stime) e nel 2021 non andrà oltre un timido +0,6%.
“L’Italia risente come altri paesi di fattori esterni che investono in particolare l’industria e l’export”, ha affermato Paolo Gentiloni, commissario Ue all’Economia, che ha aggiunto: “La fotografia consegnata dalle stime economiche non facilita le valutazioni sulle politiche che faremo nel corso del semestre di vigilanza Ue”, quando a fine maggio-inizio giugno Bruxelles esporrà le sue valutazioni. E dopo aver sottolineato come ci sia “bisogno di lavorare molto nei prossimi mesi”, Gentiloni si è detto “convinto che il Governo instaurerà un dialogo con la commissione perché il lavoro vada nella buona direzione”.
Da parte sua, il ministro Roberto Gualtieri ha palesato un certo ottimismo: “Tutti i nostri indicatori ci danno per gennaio una situazione di ripresa e siamo fiduciosi che l’economia possa ripartire”. Ma a smentire questa fiducia sono arrivati i dati Confcommercio (consumi interni in calo a gennaio) e l’invito della Corte dei conti, che ha chiesto un colpo di reni in vista del prossimo Def di aprile. Cosa dobbiamo aspettarci sul fronte dei conti pubblici? E’ giustificato l’ottimismo di Gualtieri? Basteranno le misure che il governo ha varato e intende varare per rilanciare l’economia? Lo abbiamo chiesto a Massimo D’Antoni, professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena.
Bruxelles ha tagliato le stime del Pil italiano: siamo l’unico paese europeo a crescere ampiamente sotto l’1%. Produzione industriale in picchiata, rallentamento tedesco, allarme coronavirus: con tutte queste nubi all’orizzonte non crede che sarà difficile mantenere anche il risicato +0,3% stimato dalla Ue?
Ho visto le stime, siamo gli ultimi in classifica. Purtroppo non è una novità. È dalla seconda metà degli anni Novanta che la traiettoria di crescita del nostro Paese ha smesso di essere in linea con quella dei principali partner europei. Siamo sempre circa un punto al di sotto della crescita media dell’Ue, che già di per sé è tutt’altro che brillante. In termini di reddito pro capite non abbiano nemmeno ripreso i valori precedenti la crisi del 2008. Dunque, se, come affermano autorevoli economisti, per i paesi avanzati c’è un problema di “stagnazione secolare”, per noi questo problema si presenta aggravato e ci porta vicini alla crescita zero.
Bassa crescita e bassa inflazione: questa tenaglia restringerà gli spazi per poter ridurre il rapporto debito/Pil…
È così. Per avere qualche speranza di ridurre il rapporto debito/Pil servirebbero sia crescita reale, cioè nei volumi prodotti, sia crescita dei prezzi, cioè inflazione. Val la pena ricordare che i parametri di Maastricht, il famoso 3% del deficit e il 60% del rapporto debito/Pil, avevano una loro coerenza in un contesto di crescita reale annua del 3% e di inflazione del 2%. Questi erano i livelli considerati normali nei primi anni Novanta.
E sotto il profilo dell’inflazione?
L’Eurozona manca ormai da molti anni l’obiettivo del 2%, che dovrebbe essere il livello di riferimento e che in una fase come questa può semmai essere giudicato fin troppo basso. Ma dopo anni di azioni non ortodosse come il Quantitative easing, è ormai chiaro a tutti che le politiche della Bce non bastano, occorrerebbe una spinta alla domanda anche attraverso le politiche fiscali. Ovviamente il problema non è percepito da tutti gli Stati membri allo stesso modo: per noi un po’ di inflazione in più sarebbe auspicabile, non solo per il debito ma anche per favorire l’aggiustamento nella competitività, invece i paesi creditori hanno interesse a mantenere bassa l’inflazione.
Rischiamo di incorrere tra sei mesi in una nuova procedura d’infrazione per eccesso di debito?
Negli ultimi mesi i rapporti tra Italia ed Europa sono stati più rilassati, una sorta di tregua, che interpreto come volontà di dare un po’ di spazio di manovra al nostro governo. Restiamo tuttavia sempre osservati speciali. Se questo si traducesse nella richiesta di un aggiustamento, saremmo ancora una volta di fronte al paradosso di dover rispondere a un rallentamento che ha ragioni in buona parte esterne con una politica pro-ciclica. Il meccanismo è sempre quello: si fanno delle previsioni, condivise e accettate anche in sede comunitaria, poi la situazione va peggio del previsto e allora si chiede di adottare politiche fiscali più restrittive; si chiede cioè di fare il contrario di quello che occorrerebbe per contrastare un calo della domanda.
Questa situazione potrebbe semplificare o complicare la partita sulla riscrittura delle regole Ue che vede contrapposti, da un lato, i fautori di una maggiore flessibilità – come Gentiloni – e dall’altro chi – come Dombrovskis e i paesi del Nord Europa – preferirebbe limitarsi a semplificare le regole senza allentare troppo le maglie?
Uno dovrebbe pensare che la bassa crescita di tutta l’Europa, nonché il fatto che i risultati siano quasi sempre peggiori delle previsioni, convinca la Commissione a ripensare complessivamente l’impianto di regole, per utilizzare in modo più attivo la leva fiscale. Purtroppo non è questa la ratio che sembra guidare le scelte europee. Una semplificazione delle regole come quella di cui si sta parlando da qualche tempo è auspicabile, vista l’estrema complessità e opacità dei meccanismi attuali, ma di per sé semplificazione non vuol dire flessibilità.
Il ministro Gualtieri si è detto ottimista, perché “tutti gli indicatori danno un gennaio in ripresa”. Anche l’anno scorso Conte aveva preconizzato un anno bellissimo, poi sappiamo come è andata a finire. Lei lo vede tutto questo ottimismo? Oppure possiamo concederci solo un po’ di ottimismo e di speranza? Ma in che cosa?
Gualtieri ovviamente deve rassicurare e cercare di infondere fiducia, ma non credo abbia elementi diversi da quelli già considerati nelle previsioni della Ue, che sono meno ottimistiche di quelle incorporate nell’azione del governo italiano. Ricordiamo che il governo ha previsto per il 2020 una crescita dello 0,5%. Del resto, senza voler azzardare previsioni, non mi pare che l’anno stia iniziando sotto i migliori auspici. Questa vicenda del coronavirus, se non dovesse ridimensionarsi nelle prossime settimane, rischia di avere ripercussioni molto rilevanti anche sugli scambi internazionali e quindi sull’economia globale.
Gualtieri ha dichiarato che è intenzione del governo eliminare del tutto le clausole di salvaguardia. Con questi chiari di luna non è una “mission impossible”?
Se non si apriranno margini positivi non previsti – ma a questo punto sembra difficile – il dilemma è sempre quello: attivare le clausole, sostituirle con maggiori entrate da altre imposte o tagli di spesa, oppure aumentare il deficit sfidando le regole europee. Più che impossibile, è una questione di scelte.
I provvedimenti che il governo metterà in campo nel 2020 – come il taglio del cuneo fiscale e l’annunciata riforma dell’Irpef – basteranno per dare un po’ di sollievo e un po’ di adrenalina alla nostra crescita fiacca? Altrimenti, che cosa si dovrebbe fare?
Un aggiustamento dell’Irpef per correggere gli effetti di interventi passati spesso scoordinati e incoerenti è quanto mai opportuna, ma non è da lì che può arrivare una spinta alla crescita. Lo stesso vale per il taglio del cuneo fiscale: un provvedimento che può essere opportuno, ma che difficilmente avrà effetti macroeconomici rilevanti. Ormai c’è un certo consenso sul fatto che la priorità dovrebbe essere data a un rilancio degli investimenti pubblici, ma anche per questo servono risorse, e non solo per finanziare gli investimenti, anche per creare le competenze necessarie a spendere i soldi pubblici in modo efficace. Per questo, a mio avviso, servirebbe un piano di assunzioni pubbliche che miri a ricostruire le competenze a tutti i livelli della burocrazia.
Come prevede che saranno i rapporti con la Commissione Ue da qui ai prossimi 6 mesi?
Questo governo, rispetto al precedente, ha certamente un rapporto più costruttivo con la Ue, ricambiato – come è risultato evidente lo scorso autunno – da un atteggiamento più benevolo. È probabile che questa situazione continui anche nel futuro. Ma per i nostri partner restiamo sempre gli “osservati speciali”, quelli da mettere in riga, da tenere sulla corda. Quindi cambiano i toni, ma non è chiaro se e in che misura possa cambiare la sostanza.
(Marco Biscella)