La scossa immediata sui mercati. Ieri pomeriggio il petrolio ha superato i 67dollari al barile dopo una mattinata di contrattazioni ad alta tensione in attesa del verdetto del vertice OPEC Plus convocato per decidere se proseguire i tagli alla produzione fino ad aprile. Dopo una serrata negoziazione, gli Stati produttori si sono accordati per mantenere lo status quo di produzione. Fanno eccezione la Russia, la cui produzione nel mese di marzo salirà da 65mila a 116mila barili al giorno, e il Kazakhstan, autorizzato a raddoppiare da 10mila a 20mila barili al giorno. Deluso chi dava credito alle indiscrezioni di un aumento immediato della produzione di mezzo milione di barili. Degli oltre 7 milioni di barili al giorno sottratti al mercato, circa il 7% delle forniture mondiali, la parte del leone spetta all’Arabia Saudita che ha ridotto il suo output di un milione di barili. 



La linea la dettano i due pesi massimi del cartello: Arabia Saudita e Russia, i quali si trovano in disaccordo sulla rapidità con cui riprendere la produzione interrotta. Mentre Mosca, più propensa a un’accelerazione dell’espansione delle quote produttive, prevede che entro la fine dell’anno, la domanda di greggio recuperi i livelli pre-covid, Riyadh è più cauta e rimanda a una data non meglio definita del 2022 il ripristino dei volumi di consumo pre-pandemici. Questo a causa della forte contrazione di carburante per trasporto aereo. D’altro canto, c’è il timore che il protrarsi della strozzatura delle forniture sospinga ulteriormente il rally dei prezzi che, nelle ultime settimane hanno toccato 63/65 dollari confermando il trend al rialzo partito a gennaio quando si è superata la barriera psicologica dei 50 dollari al barile. Ci stiamo avvicinando alla soglia in cui il controverso shale oil estratto dalle sabbie bituminose diventa nuovamente profittevole. 



Delle speculazioni sui tempi di ripresa economica, il cittadino continua ad accorgersene alla pompa di benzina nonostante legga ogni giorno i proclami sull’avanzamento della transizione energetica e dell’elettrificazione dei veicoli. Da anni si profetizza il picco del petrolio, eppure, sembra che la fine dell’oro nero non sia dietro l’angolo. Una situazione piuttosto schizofrenica. Un dato su tutti a quasi mezzo secolo dal primo Earth Summit delle Nazioni Unite (Stoccolma 1972) nel mix energetico le fonti fossili: petrolio, gas, carbone, nel loro insieme coprono ancora oltre 80% dei consumi energetici mondiali. 



Allora il cambiamento climatico, la salute del pianeta, Greta e la demonizzazione degli idrocarburi? Come viene spesso ricordato, vale la memorabile frase dello sceicco Ahmed Zaki Yamani quand’era ministro del petrolio dell’Arabia Saudita: “L’età della pietra non finì perché finirono le pietre, l’età del petrolio non finirà perché finirà il petrolio”. Il paleolitico si concluse perché si imparò a lavorare i metalli e nell’Antropocene l’era del petrolio finirà quando le tecnologie energetiche sostitutive saranno economicamente più vantaggiose: per i sempre più ridotti costi dei pannelli fotovoltaici e dei rotori eolici, ma anche per effetto dell’applicazione di una tassa del carbonio.

Diversi analisti suggeriscono che il prezzo del greggio sia sospinto all’insù dalla progressione delle vaccinazioni e dalle aspettative di una prossima ripresa degli stili di vita pre-pandemici, se non persino accresciuti rispetto all’epoca pre-Covid. Un dato eloquente: le prenotazioni per il periodo estivo sulla piattaforma Airbnb sono il doppio rispetto a quelle di febbraio 2019. 

Nonostante l’accelerazione delle politiche green, la contrazione di domanda mondiale di petrolio rimarrà graduale. Si osserverà piuttosto un fenomeno “tiro alla fune”. Da un lato gli sforzi di transizione low carbon dei paesi Ocse e parziali della Cina (infatti se è avanti con la produzione di tecnologie rinnovabili, al tempo stesso, nel 2020 ha acceso 38,4GW di nuove centrali a carbone pari a più di tre volte la capacità totale costruita nello stesso periodo nel mondo) e dall’altro, la sempre crescente voracità di petrolio delle economie asiatiche, India in testa. Secondo gli analisti, entro il 2022, la domanda ritornerà ai livelli pre-pandemici intorno ai 100 milioni di barili al giorno, per salire fino al picco di domanda previsto nel 2030. La mobilità elettrica conta poco: i veicoli elettrici su gomma hanno eroso lo 0,4% del consumo globale di petrolio.

Questi scenari tutt’altro che di declino e quotazioni al rialzo, non si riflettono però con un aumento della valorizzazione borsistica delle compagnie petrolifere, anzi. La pressione sociale, combinata con le sollecitazioni della finanza che disinveste dal settore degli idrocarburi e la diffusione di politiche Esg (Environment, Social, Governance, acronimo che indica politiche aziendali sostenibili e inclusive) spinge le multinazionali del settore Oil&Gas a non fare cassa sugli investimenti, ma ad attingere dalle riserve per mantenere costante il flusso di dividendi. Di conseguenza si contraggono gli investimenti per la prospezione ed estrazione di nuovi giacimenti facendoli fluire verso fonti rinnovabili. E in borsa i titoli delle compagnie petrolifere languono.

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