Il prezzo del petrolio settimana scorsa è salito ai massimi dall’inizio della pandemia e si è avvicinato alla soglia dei 50 dollari al barile trascinato anche dal continuo rialzo dei mercati. L’economia globale si basa ancora su gas, petrolio e sulla chimica degli idrocarburi e nemmeno il successo più pieno della rivoluzione verde potrà cambiare questa situazione per molti anni. Un cambio troppo accelerato avrebbe, tra l’altro, dei costi insostenibili per una fetta ampia di popolazione.



Durante le prime settimane di lockdown, questa primavera, quando diversi governi occidentali decidevano di combattere lo sviluppo della pandemia con l’imposizione di restrizioni al commercio e alla circolazione delle persone, “l’oro nero” era precipitato a minimi mai visti. Il blocco delle attività ha determinato un crollo della domanda ben rappresentato dall’azzeramento, per esempio, del traffico aereo. Nel frattempo i produttori si sono “organizzati” con tagli alla produzione e le produzioni meno efficienti hanno naturalmente rallentato. Oggi i mercati scommettono su una graduale normalizzazione delle attività economiche sia per effetto dei vaccini che per regolamentazioni più stringenti e concordate sui test. Lo scenario che gli investitori stanno sposando, a torto o a ragione, è quello di una graduale riapertura che non potrà non avere effetti sulla domanda di petrolio.



In questo contesto si possono sottolineare due fattori. Il primo è che dal 2014 gli investimenti in nuova produzione sono crollati e quest’anno hanno toccato nuovi minimi. Il conto di anni di mancati investimenti non è mai arrivato sia per una generale disaffezione degli investitori che “devono” privilegiare investimenti “green”, sia per la recessione economica che ha falcidiato i consumi. Il mondo che “riapre” consumerà di più di quanto fatto negli ultimi mesi e le energie rinnovabili sono un concorrente ancora molto imperfetto, si pensi al problema dello stoccaggio, e costoso. Quanto successo negli ultimi anni ha ridotto enormemente il numero di società attive nei servizi per l’esplorazione e l’estrazione dopo molti fallimenti che hanno coinvolto anche società leader nel settore. Significa che qualsiasi incremento della domanda sarà difficilmente “servito” nel breve-medio periodo.



Il secondo fattore è quello geopolitico. Il Medio Oriente negli ultimi anni è stato relativamente tranquillo complice una politica nordamericana “isolazionista” che ha privilegiato le ragioni dell’economia interna a dispetto di quelle della proiezione globale americana. Sotto la presidenza Trump l’America ha evitato nuovi conflitti caldi in Medio Oriente concentrandosi sulle ragioni della guerra commerciale. La presidenza Biden potrebbe riportare la politica estera americana sui binari di quella Obama/Clinton che certamente non è stata estranea a diversi conflitti nel Mediterraneo, si pensi alla Libia.

In un articolo pubblicato su “Foreign affairs” a inizio ottobre l’ex segretario di stato, Hillary Clinton, delineava le linee di una possibile nuova fase della strategia militare americana. Oltre i “sinistri” riferimenti a un’alleanza tra Iran e Cina, tutto faceva presagire una rinnovata competizione, anche militare, con Cina e Russia facendo leva sulle alleanze americane. Facilmente l’inversione delineata nella pubblicazione potrebbe comportare nuovi focolai in Medio Oriente con tutte le conseguenze del caso sul petrolio.