Prima di ritracciare durante la giornata, ieri il prezzo del petrolio è arrivato ai massimi da novembre 2014 mentre il prezzo della benzina ha sorpassato i massimi degli ultimi tre anni alla vigilia della stagione estiva. La notizia di giornata è il mancato accordo tra i membri Opec che mette in forse un aumento concordato della produzione in un mercato che comincia a essere tirato. Questo è solo l’ultimo episodio di una corsa che dura da molti mesi e che ha portato il prezzo del petrolio molto oltre le aspettative di recupero di sei mesi fa. La vicenda ha almeno due risvolti.



Settimana scorsa la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo ha annunciato che non finanzierà più progetti di ricerca di idrocarburi, sia petrolio che gas. Le major petrolifere occidentali non possono aumentare gli investimenti, né continuare a investire come in passato per rispettare gli obiettivi di riduzione della CO2 e gli obiettivi climatici. L’offerta di idrocarburi in uno scenario di domanda crescente è destinata a incontrare molte difficoltà. 



L’Unione europea sta ancora decidendo se l’energia nucleare verrà inserita nella lista delle risorse energetiche verdi. Le ultime notizie e la presa netta di posizione di diversi Paesi membri, tra cui la Francia, fanno pensare che la risposta sarà affermativa. Il problema è che costruire nuova capacità nucleare in Europa è molto difficile e richiede moltissimo tempo anche se è il complemento naturale delle fonti rinnovabili. A chi non ha il nucleare e non vuole usare più gli idrocarburi non rimane che spingere al massimo sulle rinnovabili che però hanno due difetti: costano tanto e non sono affidabili perché i progetti di immagazzinamento dell’energia sono ancora immaturi e lo saranno per un paio di decenni. Chi produce petrolio farà buon viso a cattivo gioco potendo contare su prezzi in salita, per i consumatori e le imprese invece i problemi rimangono.



La seconda questione è che gli idrocarburi sono il principale motore dell’inflazione e incidono direttamente o indirettamente sui prezzi come nessun’altra materia prima essendo alla base della maggioranza dei prodotti che usiamo tutti i giorni. In teoria saremmo in uno scenario deflattivo non solo perché usciamo da una recessione dura; il crollo delle nascite è una spinta deflattiva sia nel breve che nel medio-lungo termine. I mercati si reggono sulla convinzione che le banche centrali accetteranno un po’ di inflazione pur di non compromettere la ripresa e la stabilità finanziaria; questo vale solo fino a un certo punto e soprattutto nessuno è sicuro di quale sia il livello di rialzo dei prezzi “accettabile” dalle banche centrali. Se l’incremento dei prezzi, per esempio via risalita dei beni energetici, dovesse far cambiare idea alle banche centrali, per i mercati si aprirebbero degli scenari sconosciuti. Dovrebbero incorporare attese di rialzo dei tassi che oggi sono rimandate oltre l’orizzonte temporale delle preoccupazioni degli investitori. Dato che i debiti pubblici e privati sono molto più alti di due anni fa e molti settori sono ancora in piena convalescenza, un rialzo dei tassi avrebbe effetti molto maggiori e porterebbe ondate di volatilità sui mercati. 

Il prezzo del petrolio, e quello delle altre materie prime, quindi, deve essere monitorato molto attentamente non solo perché pesa sui consumatori e sulle imprese, ma perché potrebbe essere la scusa, giusta o meno non importa, per cambiare le politiche delle banche centrali. I mercati non sembrano pronti a un cambiamento di questo tipo. 

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