Il profilarsi della recessione economica mondiale innescata dal coronavirus ha impattato violentemente sul mercato delle materie prime e in particolare sul prezzo del petrolio. Il Brent (mercato petrolifero europeo), che nel corso del 2019 si era mosso nella fascia tra 60 e 70 dollari al barile, è caduto rovinosamente a metà marzo, al momento dell’esplosione del coronavirus in Italia e in Europa, e poi in maniera ancora più decisa con la diffusione dell’epidemia negli Stati Uniti. Non solo il prezzo del petrolio si è dimezzato, ma i prezzi risultano oggi perfino inferiori a quelli minimi raggiunti durante la crisi del 2008-2009.



I Paesi petroliferi non sono stati in un primo tempo in grado di raggiungere un accordo per tagliare la produzione e sostenere i prezzi; anzi, si è innescata una guerra al ribasso per mantenere le quote di mercato. Solo le pressioni degli Stati Uniti, con il Presidente Trump fortemente preoccupato per la sopravvivenza dei produttori di shale oil, non competitivi a questi livelli di prezzo, ha riportato a un accordo il 12 aprile che ha previsto il taglio del 10% della produzione mondiale. La misura non è apparsa comunque sufficiente a compensare le attese della caduta della domanda, che, per una recessione considerata la più grave dal secondo dopoguerra, non dovrebbe essere inferiore al 30%.



I prezzi hanno continuato a mantenersi su livelli molto bassi. Anzi, lunedì 20 aprile le quotazioni del Wti, il greggio estratto negli Stati Uniti, hanno registrato un crollo senza precedenti, andando su livelli negativi; un fatto del tutto anomalo per cui il venditore paga per liberarsi di ciò che vende.

Le previsioni vedono prezzi del petrolio e delle fonti fossili destinati a restare bassi, indicativamente nel prossimo biennio, in attesa di una ripresa dell’attività economica mondiale almeno ai livelli precedenti della crisi determinata dalla pandemia. Il Fondo monetario internazionale e la Banca d’Italia concordano su un livello dei prezzi medio che non dovrebbe essere superiore a 35 dollari a barile nel 2020 e 38 dollari nel 2021, con valori solo leggermente più alti per il Brent; si tratta di stime che oggi possono apparire perfino ottimistiche e presuppongono una decisa ripresa nella seconda parte dell’anno, muovendosi attualmente poco sopra i 20 dollari.



È auspicabile che questa ritrovata grande convenienza delle fonti fossili non impatti negativamente sulla transizione energetica verso quelle rinnovabili e nelle strategie di investimento delle imprese; al contrario, potrebbe essere vista come un’opportunità per almeno tre grandi ordini di ragioni economiche. La prima riguarda la sicurezza degli approvvigionamenti; infatti, le fonti rinnovabili sono fonti distribuite, incomparabilmente meno esposte al rischio di dipendenza politica ed economica da Paesi che spesso si caratterizzano per essere a regime autoritario.

La seconda ragione è inerente alla minore oscillazione dei costi dell’energia rinnovabile. Oggi in ragione dei prezzi contenuti, può apparire conveniente continuare a utilizzare fonti fossili, ma gli alti e i bassi si susseguono e per chi produce manufatti e anche per le famiglie questo espone all’incertezza su importanti fattori di costo. Meglio avere certezze di prezzi stabili su cui improntare strategie di medio lungo termine, che essere esposti a bruschi cambiamenti di rotta, che possono impattare sulla competitività.

La terza ragione è legata alla sostenibilità ambientale. Per rispondere agli ambiziosi e dovuti impegni del contenimento dei gas clima alteranti è necessario investire nella transizione energetica; non possiamo fare passi indietro e nemmeno decelerare. Diversamente non riusciremo a contenere l’aumento della temperatura sotto i due gradi entro il 2050. Oggi più che mai è necessario raggiungere un mix energetico più pulito, che consenta di conciliare sostenibilità ambientale, competitività economica e sicurezza.

Nella transizione non tutti gli idrocarburi sono da considerare negativi, infatti il gas avrà ancora un ruolo importante costituendo una risorsa centrale per soddisfare i bisogni di energia dell’Italia nel percorso verso la de-carbonizzazione. Vanno, infatti, considerate le emissioni del 50% in meno di CO2 (anidride carbonica) rispetto al carbone e del 90% di CO (monossido di carbonio). Inoltre, sempre per il gas vanno diversificate le fonti di approvvigionamento e molto dovrà essere fatto per rafforzare la dotazione infrastrutturale al servizio delle imprese e dei consumatori italiani. Energie rinnovabili e metano non vanno intesi in alternativa, ma ne va sottolineato, nella transizione, il possibile ruolo complementare, soprattutto in funzione dell’adeguamento delle reti di trasmissione e distribuzione elettrica sul territorio nazionale e dell’intermittenza delle forniture di energia da rinnovabili, che non assicurano ancora una continuità e regolarità piena del servizio.

In questo contesto dovranno essere potenziate e sostenute attraverso un deciso investimento pubblico, in coerenza con gli obiettivi della Energy Union Strategy della Ue e del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima recentemente approvato, le riconversioni degli impianti di raffinazione (così come avvenuto a Porto Marghera e Gela) e sperimentazioni di utilizzo del biometano, connettendo la filiera agroalimentare al ciclo energetico, e dell’idrogeno in miscela con il metano o come vettore energetico diretto.

È il caso di rivedere anche i meccanismi di prezzo e gli strumenti fiscali che presidiano prodotti come il gas naturale, il carbone e il petrolio in modo di garantire che la transizione alla low carbon economy sia efficace e competitiva. Questo significa che i prezzi relativi al gas da una parte, petrolio e carbone dall’altro, devono modificarsi; da un lato, riducendo i sussidi ambientali dannosi di cui beneficiano i combustibili fossili maggiormente impattanti, dall’altro, mantenendo remunerativo il prezzo del gas naturale rispetto ai prezzi di acquisto e agli investimenti infrastrutturali necessari.

Oggi dopo la crisi del coronavirus fare della sostenibilità ambientale il volano di una grande trasformazione produttiva ha ancora più senso, ma per le nostre imprese e lavoratori l’eccellenza ambientale deve essere sinonimo di competitività. Questo significa intervenire, laddove necessario, con misure tariffarie, strumenti di difesa, per non subire la concorrenza di altri sistemi economici, propensi a dumping ambientale, sociale ed ecologico che avrebbero come conseguenza la totale mancanza di tutela tanto dell’ambiente, quanto dei lavoratori, come dei consumatori finali. Per scongiurare la chiusura delle imprese locali e l’aumento della disoccupazione, è necessario accompagnare e monitorare questa nuova trasformazione del mondo del lavoro.

Le misure di accompagnamento dovrebbero, tra le altre, includere, da una parte una maggiore partecipazione dei lavoratori, dall’altra investire sulle politiche attive, definendo un’adeguata informazione e formazione che consentano agli attuali lavoratori e ai giovani di avere il giusto orientamento verso le professioni del futuro.

Infine, la possibilità di rendere autonomi dal punto di vista energetico tutti i Paesi a livello globale con l’utilizzo a regime delle rinnovabili, senza la forte pressione della dipendenza energetica da fonti di Stati terzi, aprirà scenari nuovi negli equilibri internazionali, sui quali sarà importante riflettere e investire per un mondo più giusto e per ridurre le diseguaglianze.