Il prezzo del petrolio ieri ha raggiunto il massimo dagli ultimi tre anni e i prezzi della benzina riflettono questo andamento. Il rialzo è il prodotto sia delle riaperture che spingono la domanda, sia della condizione del settore petrolifero. La ripresa economica, la fine delle restrizioni sugli spostamenti sia in Europa che negli Stati Uniti hanno determinato un incremento della domanda di petrolio a cui prossimamente potrebbe aggiungersi quella del trasposto aereo.



La domanda di petrolio, in un contesto che si normalizza, dovrebbe quindi continuare a salire. Non bisogna poi dimenticare che intere regioni del globo non hanno mai fatto alcun lockdown e hanno una domanda crescente come effetto naturale dello sviluppo economico. Questo è vero sia per l’Africa che per il sud est asiatico.



L’altro lato della medaglia è quello relativo all’offerta. È dalla fine del 2014, quando il prezzo del petrolio crollò in pochi mesi di oltre il 50%, che le principali società petrolifere globali hanno tagliato gli investimenti dimezzandoli circa rispetto al ciclo precedente. All’appello mancano quasi 300 miliardi di dollari di investimenti all’anno. L’effetto sull’offerta è stato limitato perché il settore ha beneficiato degli investimenti del ciclo precedente e perché la crescita non è stata particolarmente forte. Gli investimenti in nuova produzione richiedono tempi lunghi e hanno effetti anche pluridecennali. Il crollo degli investimenti che si è prodotto dal 2015 ha effetti dilazionati nel tempo, mentre la nuova produzione programmata fino al 2014 è arrivata negli anni successivi.



Diversi elementi, incluso il calo delle scorte, e un po’ di “aneddotica” segnalano che il mercato fisico sia tirato e che l’offerta fatichi a tenere il passo della domanda. Il prezzo del petrolio, in un contesto economico ancora carico di incertezze, è solo una delle spie. Le società petrolifere occidentali però non investono più o con molta fatica in nuova produzione perché devono “obbedire” alle regole della transizione energetica. Tralasciamo poi le tensioni geopolitiche in Medio Oriente. Questa situazione può avere un’unica possibile conclusione che è l’incremento del prezzo.

La “scelta” delle società petrolifere occidentali è sostenibile nella misura in cui l’energia rinnovabile riesce a sostituire le fonti fossili, petrolio e soprattutto gas, in quantità e prezzo e se si dà abbastanza tempo perché la transizione avvenga. Il presupposto non detto, ai consumatori, è che l’energia che arriva dagli idrocarburi possa arrivare abbastanza in fretta, in quantità equiparabili e a costi simili dalle rinnovabili. Se la transizione non rispetta questi criteri quello che accadrà sarà che i costi saranno molto più alti oppure che non ci sarà la stessa disponibilità di prima. Questo a sua volta significa che i consumatori dovranno accettare di pagare molto di più oppure di usare molta meno energia o tutti e due. L’incremento dei “prezzi alla pompa” di questi giorni potrebbe essere solo il primo segnale. 

Altre aree del globo invece non intendono o semplicemente non possono pagare i costi della transizione energetica o sobbarcarsi i rischi di fermare economie in espansione con tecnologie non mature. Nel contesto attuale di espansione dei bilanci delle banche centrali e di politiche monetarie espansive c’è un importante corollario. Il prezzo delle materie prime sale e questo incremento ha effetti molto più pesanti nei Paesi emergenti perché la quota di salario dedicata a queste voci di spesa è, in percentuale, molto più alta. Le economie in via di sviluppo soffrono molto di più in uno scenario di incremento dei prezzi e rischiano di “vedersi portar via” le risorse o di non potersele più permettere mentre vengono comprate con nuova moneta. 

In questo scenario si potrebbe produrre un fenomeno già sperimentato in altri settori e cioè che le risorse prodotte nei Paesi emergenti vengano sottratte dai mercati internazionali e tenute in loco in un modo o nell’altro. In questo caso i prezzi potrebbero essere doppi o tripli e le banche centrali potrebbero stampare per altri tre anni e non cambierebbe nulla. 

Nessuno ha la palla di vetro, ma questo scenario è uno dei possibili e se la transizione dovesse fallire i delusi potrebbero essere tanti. A quel punto si vedrà quanto i consumatori sono disposti a cambiare stile di vita per “salvare il pianeta”. Finora il sogno verde è stato certamente poco costoso e senza impatti sugli standard di vita. 

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