Compie oggi ottant’anni uno dei migliori film di Sir Alfred Hitchcock, anche se da annoverare tra i meno noti al grande pubblico social-televisivo di oggi. Si tratta di Prigionieri dell’Oceano, la cui premier si tenne a Londra il 28 gennaio 1944, in piena Seconda guerra mondiale.

Il riferimento storico non è di secondaria importanza. Il film nasce infatti da intenti di propaganda: come ad altri registi hollywoodiani del tempo, anche ad Hitchcock, suddito di Sua Maestà britannica sbarcato da poco sulla costa occidentale degli Usa, fu chiesto di dare il proprio contributo allo sforzo bellico degli Alleati. Hitchcock, però, una volta accettato l’incarico, seppe trasformare un film impostogli dai produttori in uno dei suoi esperimenti di stile più riusciti. Il quale è consistito nel girare un intero film in un unico luogo circoscritto – una scialuppa di salvataggio in mare aperto – rispettando quasi completamente le tre unità aristoteliche della drammaturgia: tempo, luogo ed azione. Diciamo quasi poiché il completo rispetto di tali unità, pensate per il teatro, al cinema risulta impossibile, per ragioni di “grammatica” del medium.



In questo senso Prigionieri dell’Oceano condivide la sperimentalità hitchcockiana finalizzata al Cinema in sé con il successivo Nodo alla Gola (1948), girato con un unico piano sequenza, seppure con l’inevitabile ausilio di alcuni espedienti tecnici: un vero unico piano di novanta minuti è reso impossibile dalla lunghezza ridotta delle bobine di pellicola dell’epoca (al massimo 28 minuti).



Tratto da un soggetto di John Steinbeck, che aveva scritto anche la sceneggiatura, ritenuta inadeguata dalla produzione quindi rifatta dal professionista del settore Jo Swerling (con la supervisione del regista), il film narra le vicende di un gruppo di naufraghi di una nave passeggeri affondata da un U-boot nazista in pieno oceano Atlantico. Riunitisi su una scialuppa, i malcapitati, tutti inglesi o americani, accolgono un marinaio tedesco a sua volta naufrago dell’U-boot affondato da altra nave. Gli “ospiti” della lancia sono dibattuti sul da farsi: accogliere il tedesco o rigettarlo in mare? Decidono di tenere il marinaio, in cambio di un aiuto sulla navigazione della scialuppa.



Il tedesco, dapprima fingendo di non saper parlare inglese, poi palesandosi come il comandante dell’U-boot malandrino, esperto di rotte, assume gradualmente il comando della scialuppa. Dichiarando di volerli condurre in salvo, dirige invece la scialuppa verso una nave tedesca ausiliaria. Arrivati in prossimità di quest’ultima, il colpo di scena finale: la nave tedesca è affondata da una corazzata Alleata. Allora il capitano tedesco invoca pietà e trattamento umanitario, ma i naufraghi rifiutano: farà la fine atroce che si è meritato.

L’intento originario di Steinbeck era quello di riprodurre in piccolo una sorta di lotta di classe, in un ambiente chiuso e in un contesto di scarse risorse e cooperazione forzata per la sopravvivenza, anche con il tramite di personaggi emblematici, ognuno dei quali simbolo di una diversa condizione sociale o culturale (l’ingegnere comunista, l’uomo d’affari di destra, la giornalista snob, il marinaio proletario, la crocerossina). Ma poi, una volta risceneggiato per le riprese, il soggetto steinbeckiano diventa un film di Hitchcock a tutti gli effetti. Denso di suspense psicologica e carica emotiva sottotraccia, Prigionieri dell’Oceano è sviluppato abilmente dal suo regista come un thriller senza azione, con una colonna sonora senza musiche mirate a sottolineare i momenti topici, ma solo con i rumori dell’oceano, della pioggia, del vento e della guerra in lontananza. Tutto per dare risalto all’abile messa in scena, alla quale sola il regista si affida per creare tensione e caratterizzare i personaggi. Ne risulta un film di genere girato stravolgendo i topoi del genere stesso, per farlo diventare un (quasi) puro esercizio di Cinema, visivamente straordinario e fascinoso. Non è la prima volta e non sarà l’ultima nella lunga carriera del maestro Alfred Hitchcock.

Da evidenziare infine il fatto che Prigionieri dell’Oceano venne girato interamente in un teatro di posa, usando una vasca colma d’acqua torbida e dei trasparenti per i fondali e l’orizzonte, mille miglia (concettualmente) distante da un qualunque vero oceano. Eppure la sensazione di realismo è fortissima, e anche la splendida fotografia in bianco e nero riproduce alla perfezione quel senso di precarietà e tragedia incombente cui tende il narrato del film.

Ritroviamo allora anche in Hitchcock la caratteristica fondante del cinema classico, che in diverse coniugazioni è presente in tutta la storia del Cinema: tutto è finto (fiction), ma ripreso in modo che tutto appaia (apparenza, cioè ancora fiction) più vero del vero. Potenza innata della Settima arte, in questo caso guidata dalle ispirate e sapienti mani di uno dei massimi registi cinematografici del Ventesimo secolo. Il quale, già preda della nota scaramanzia di mostrarsi come comparsa all’inizio di ogni suo film, e non potendo camminare sulle acque in mezzo all’oceano, appare in fotografia su una pagina del giornale sfogliato da uno dei naufraghi.

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