Le primarie del Partito Democratico negli Stati Uniti stanno portando a un confronto diretto tra Joe Biden e Bernie Sanders, rappresentanti di due anime profondamente diverse del partito. Sanders, un indipendente eletto con i Democratici e che si definisce socialista, rappresenta la posizione di sinistra del partito, posizione che gli era contesa da Elisabeth Warren fino al suo recentissimo ritiro. Biden, già vicepresidente con Obama, può essere definito un uomo dell’establishment democratico e carta “moderata” contro l’estremista Bernie.



I due sono peraltro accomunati dall’età – Biden 77 anni e Sanders 78 – e dalla lunga presenza in politica: Biden è nel Senato dal 1972 ed è stato vicepresidente dal 2009 al 2017; Sanders, per otto anni sindaco di un importante centro del nativo Vermont, è stato eletto alla Camera dei Rappresentanti nel 1990, per poi passare al Senato nel 2007. Vi è poi un altro elemento che li accomuna e li fa triangolare con Donald Trump: presunti rapporti non trasparenti con governi stranieri.



Il primo caso fu il cosiddetto “Russiagate”, cioè la presunta pesante interferenza russa nelle presidenziali del 2016 in favore di Trump, accusato a sua volta di averne tratto vantaggio. Le lunghe indagini, di cui permangono strascichi, non portarono a nulla di fatto e, paradossalmente, un tentativo simile è stato effettuato nelle attuali primarie contro Sanders. La tesi è che la Russia trarrebbe solo vantaggi da un confronto finale tra “l’amico” Trump e il socialista Sanders. Una tesi che perde ora di importanza, dato che sarà probabilmente Biden il candidato finale, grazie anche al ruolo che nelle primarie democratiche giocano i cosiddetti “supercandidati”, espressione diretta dell’apparato di partito. Nel 2016 costoro furono determinanti per la vittoria di Hillary Clinton su Sanders.



All’origine della richiesta di impeachment di Trump, bocciata lo scorso febbraio dal Senato a maggioranza repubblicana, vi è invece l’Ucraina. Trump era accusato di abuso di potere e ostruzione del Congresso per aver minacciato, secondo i Democratici, il neo eletto presidente ucraino, Volodymyr Zelenskij, di sospendere gli aiuti finanziari se non avesse condotto indagini sul figlio di Joe Biden. Hunter Biden, durante la vicepresidenza del padre, era stato assunto in una posizione apicale in una società petrolifera ucraina, Burisma, proprietà di un oligarca molto discusso. Nella vicenda non emergevano veri e propri reati, ma sorgevano comunque dubbi, sia negli Stati Uniti che in Ucraina, sulla sua correttezza istituzionale.

Joe Biden è anche accusato di aver chiesto la rimozione, anche qui pare minacciando il taglio di finanziamenti, del procuratore generale ucraino Viktor Shokin. La ragione addotta da Biden era la scarsa opposizione del procuratore alla diffusa corruzione in Ucraina, ma Trump accusa il democratico di aver voluto impedire l’avvio di indagini su Burisma e quindi sul figlio.

Il caso si è ora riaperto con l’accettazione da parte di un tribunale ucraino del ricorso di Shokin, in cui si parla di pressioni americane per il suo licenziamento, senza però fare esplicitamente il nome di Joe Biden. Trump ha ovviamente ripreso la questione facendone un argomento importante della sua campagna e al Senato i Repubblicani stanno aprendo un’indagine ufficiale sulla vicenda.

Uno scenario che mal si addice alla più grande potenza mondiale e che sta causando problemi all’Ucraina, che non ha certo bisogno di essere coinvolta nelle beghe di altri governi. Il conflitto nel Donbass con i separatisti filorussi, iniziato nel 2014 e che ha causato più di 10mila morti, è ben lungi dal concludersi e continua, sia pure a “bassa intensità”. Il partito del presidente Zelenskij è stato costituito solo da due anni e, malgrado la maggioranza assoluta nel Parlamento, sta soffrendo dell’inesperienza di gran parte dei suoi parlamentari. Inoltre, stanno emergendo sempre più divisioni al suo interno, con la formazione di correnti contrastanti tra loro e che mettono sempre più in difficoltà il presidente.

Zelenskij ha ora attuato un rimpasto di governo, a soli sei mesi dall’insediamento, sostituendo primo ministro e vari ministri. Alla radice dell’operazione sembrerebbe essere lo scontro con diversi oligarchi, tra cui Ihor Kolomoysky, proprietario della catena televisiva che ospitava il programma “Servitore del Popolo”, di cui Zelenskij era protagonista e che ha dato il nome al suo partito. A complicare le cose si è aggiunta un’indagine sul precedente presidente, Petro Poroshenko, relativa alle trattative nel 2015 con la Russia sull’accordo Minsk II per la soluzione del conflitto nel Donbass. L’operazione, criticata anche dall’Unione europea, è da molti definita una vendetta politica.

Forse ha ragione Konstantin Skorkin del Carnegie Moscow Center quando afferma che Zelenskij “rischia di aggiungersi alla serie di riformatori falliti dell’Ucraina”. Sarebbe il caso che se ne tenesse conto anche dalle parti di Washington.