Gli avvenimenti della “Primavera di Praga” costituiscono senza dubbio uno degli snodi principali della storia non solo cecoslovacca, ma anche europea. L’obiettivo dichiarato era la riforma di un sistema marcio e corrotto e l’istituzione di un “socialismo dal volto umano”, che rinnegasse i dogmi dello stalinismo e del leninismo, introducendo il rispetto dei diritti umani. Allo stesso tempo si proponeva un sistema democratico che facesse i conti con le colpe gravi di cui si era macchiato il regime fino a quel punto e che riabilitasse le migliaia di vittime degli abusi fin lì commessi.



Il principale responsabile di questa coraggiosa e profetica rivoluzione è senza dubbio Alexander Dubček, il primo slovacco a raggiungere il vertice del Partito comunista cecoslovacco nel gennaio 1968.  Il 27 novembre ricorre il centenario della nascita di Dubček, e la commemorazione della figura storica di questo protagonista del XX secolo non sembra unanime nel riconoscerne i meriti. Soprattutto da certi ambienti ultraconservatori si leva una voce critica, secondo cui il leader della Primavera era, in fondo, un comunista che non ha mai rinnegato la propria fede politica. Ma questo non è del tutto vero. Proviamo a rileggere la storia di Dubček con obiettività, fin dall’inizio.



Infanzia, adolescenza e gioventù

Alexander Dubček nasce a Uhrovec, un piccolo villaggio del nord della Slovacchia, il 27 novembre 1921, nella stessa casa in cui era nato, oltre cento anni prima, Ľudovít Štúr, ufficialmente riconosciuto come il padre dell’identità nazionale slovacca. La famiglia si era da poco trasferita dagli Stati Uniti, dove i genitori avevano fatto parte dei primi movimenti socialisti americani. Sarà lo stesso Alexander, nella sua autobiografia, a definire il padre un vero “animale politico”, per la passione con cui viveva l’impegno politico (era stato uno dei primi membri del Partito comunista locale). Molto significativo, in questo senso, è vedere come più che dall’antagonismo della “lotta di classe”, Štefan Dubček fosse ispirato da un ideale di solidarietà e collaborazione che avrebbe finito con l’influenzare il modo di pensare del figlio.



È questo ideale a portare la famiglia nel Kirghizistan nel 1925 con la cooperativa Interhelpo, che avrebbe avuto un ruolo importantissimo nella costruzione di diversi edifici e infrastrutture fondamentali per la remota repubblica sovietica. Con l’arrivo della Seconda guerra mondiale e l’escalation dello stalinismo, il regime di Mosca nel 1943 espropria la cooperativa di tutti i suoi possedimenti e inizia a perseguitarne i membri. La famiglia Dubček, però, era già tornata in Slovacchia nel 1938. Il giovane Alexander aderisce nel 1939 al fuorilegge Partito comunista e partecipa attivamente all’Insurrezione Nazionale Slovacca (Slovenské národné Povstanie) del 1944.

Nelle sue memorie, Dubček racconta come gli eventi del 1968 gli avrebbero fatto comprendere appieno il comportamento dell’Armata Rossa durante l’insurrezione, fallita anche per la decisione dei generali sovietici di non intervenire attivamente come da precedenti accordi per dare priorità ad altre operazioni su altri fronti. Il fatto che per i sovietici gli insorti slovacchi non fossero altro che “golpisti borghesi”, sarebbe infatti tornato in mente a Dubček durante l’occupazione del 1968. Con la fine della guerra si può dire anche che si chiuda la prima parte della vita di Dubček. Alexander sposa Anna Borseková e inizia la carriera politica nel Partito comunista.

Ascesa politica e questioni irrisolte

Una delle critiche che vengono mosse nei confronti di Dubček è quella di essere stato membro attivo del partito negli anni 50, il periodo in cui il regime usò ogni barbarie possibile per disfarsi degli oppositori non solo politici. In effetti, nella sua biografia, Dubček sembra a tratti evasivo sulla questione. Ad esempio, giustifica il golpe del 1948 come inevitabile per via della Guerra fredda.

Sarà il suo lavoro nella Commissione Kolder a fare definitivamente da spartiacque per Dubček: istituita nel 1962 per far luce proprio sui crimini e gli abusi del regime negli anni di Gottwald e Stalin, la mole di documenti a testimonianza della corruzione politica e morale del regime indirizzano definitivamente il desiderio di Dubček di riformare il socialismo cecoslovacco. C’è però molta strada da fare, e soprattutto un Antonin Novotný da battere: il primo segretario del Partito comunista cecoslovacco era stato anche eletto presidente della Repubblica. Sarebbero serviti cinque anni per riuscire nell’intento. Grazie anche a diverse scelte sbagliate di Novotný, soprattutto nei confronti della Slovacchia e dei suoi abitanti, Dubček viene eletto primo segretario del partito il 5 gennaio 1968. Il suo programma di riforme è ambizioso e si pone obiettivi chiari, primo tra tutti la costruzione di un dialogo con i cittadini.

I cecoslovacchi capiscono subito che qualcosa sta cambiando e abbracciano Dubček e il suo “socialismo dal volto umano”. Il Programma di Azione del partito, approvato in aprile, mette nero su bianco il distacco dalla dottrina marxista-leninista e dalla brutalità stalinista. La censura viene abolita, diritti civili fondamentali come la libertà di espressione e di circolazione vengono ristabiliti, i verdetti dei processi sommari del passato vengono annullati e migliaia di persone riabilitate (tra loro anche Milada Horáková, unica donna a essere giustiziata dal regime, nel 1950). È la “Primavera di Praga”.

Il comunismo getta la maschera

Nei paesi vicini il ciclo di riforme avviato da Dubček desta più di una preoccupazione: anche l’Urss di Brežnev, che inizialmente aveva sottovalutato la questione richiamando alla non ingerenza negli affari interni di una nazione amica, fiuta il pericolo. Attraverso una serie di incontri, i regimi comunisti del Patto di Varsavia fanno pressione su Dubček affinché torni sui suoi passi. Brežnev, che in Urss aveva rilanciato lo stalinismo dopo la denuncia dei suoi crimini e la conseguente destalinizzazione operata da Chruščëv, cerca di imporre il dietrofront ai riformisti cecoslovacchi. Ma Dubček si oppone, garantendo agli alleati che la Cecoslovacchia avrebbe rispettato gli accordi reciproci, ma che le riforme sono una questione interna in cui gli altri paesi non dovrebbero intervenire. Lo slovacco si fa forte anche del grande entusiasmo e del sostegno ricevuto dalla popolazione, in particolare nella parata del 1° Maggio: per la prima volta una folla entusiasta accompagna un leader in cui si riconosce.

Ma mentre Dubček negozia in buona fede, Brežnev usa tutti i mezzi a sua disposizione per fermarlo. Dagli incontri di Bratislava, a inizio agosto, sembra che la linea cecoslovacca prevalga, ma in realtà il piano per l’invasione militare da parte delle forze del Patto di Varsavia è già avviato.

È in queste circostanze che emerge un altro aspetto che porta molti a criticare, ora come in passato, le decisioni di Dubček: lo si accusa di essere stato troppo “ottimista” e fondamentalmente “corretto”, poco “politico”, insomma, nel trattare con le controparti. Dalle varie testimonianze e fonti storiche emerge un primo segretario che cerca di temporeggiare, per poter capitalizzare sul consenso popolare e sulla convocazione di un congresso straordinario del partito, programmato per i primi di settembre. E non è difficile trovare il punto di non ritorno nella trascrizione di una telefonata tra il leader cecoslovacco e il suo oppositore sovietico, in cui Brežnev minaccia apertamente di “dover prendere provvedimenti” se le cose non dovessero cambiare in Cecoslovacchia.

Dubček, esasperato, risponde con sfrontatezza: prendete pure i provvedimenti che riterrete necessari. Dalle sue memorie emerge la convinzione che mai l’Urss e gli altri paesi sarebbero passati all’opzione militare. Può essere questo un errore imperdonabile, per il leader della Primavera di Praga? Non credo sia corretto sostenerlo: l’intervento militare era l’unica risposta possibile per Brežnev e i suoi alleati. L’unico modo per scongiurarlo sarebbe stato fare quello che chiedevano: interrompere il processo di riforma, abortire il “socialismo dal volto umano” e ristabilire la dittatura oppressiva precedente.

Il rifiuto, da parte di Dubček, di rinunciare a tutto quello in cui credeva così come lo aveva compreso dall’impegno del padre, oltre a testimoniare l’autenticità dell’ideale per cui si batteva il leader slovacco, costringe il comunismo a gettare la maschera: non è possibile, per la dottrina leninista-stalinista, un socialismo dal volto umano. Non sono la solidarietà e la cooperazione a guidare Brežnev, Gomulka, Kadar e Ulbricht: i cardini dell’ideologia in cui credono sono la violenza, la sopraffazione, la repressione di chiunque la pensi diversamente.

(1 – continua)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI