Anche grazie al consolidato e diffusissimo utilizzo degli smartphone, è divenuto particolarmente agevole registrare le conversazioni tra i colleghi o con i superiori. Il che assume un particolare rilievo nei casi in cui un lavoratore reputi (a torto o a ragione) di trovarsi in un ambiente “ostile”. Il dipendente può infatti trovarsi a dover dimostrare di essere vittima di vessazioni o di mobbing (ad esempio) da parte del superiore gerarchico, ma quest’ultimo – chiamato a deporre come testimone in una causa di lavoro – ben difficilmente confermerà di aver vessato il proprio sottoposto. Una registrazione dei soprusi potrebbe invece ovviare al rischio di reticenze e di spiegazioni a posteriori. D’altro canto, ammettere un utilizzo “selvaggio” delle registrazioni sarebbe destabilizzante per il clima lavorativo (perché ciascuno potrebbe sospettare di essere registrato da altri, con conseguente psicosi da “polizia segreta della ex Ddr”). È possibile trovare allora un equilibrio tra le esigenze del lavoratore e il rispetto della privacy e della libertà di ciascuno?



Già con il D.Lgs. 193/2003 (c.d. Codice della Privacy), il Legislatore aveva stabilito una generale regola del “consenso”, per cui la trattazione dei dati (e dunque anche la registrazione di video o di “vocali”) poteva essere consentita solo con, per l’appunto, il “consenso” del titolare dei predetti dati (e dunque di chi viene registrato in video o in vocale). Tra le deroghe a questa regola generale, il legislatore aveva però previsto quella concernente i dati utilizzati “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria“, sempre che gli stessi fossero “trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento” (l’art. 24 comma 1 lett. f).



Anche l’ormai noto Gdpr (General Data Protection Regulation) ha previsto che la regola sul consenso possa essere derogata nel caso in cui i dati dell’interessato siano necessari per “l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria” (art. 17 comma 3). Inoltre, con specifico riferimento ai rapporti di lavoro, l’art. 88 del Regolamento prevede che gli Stati membri dell’Ue debbano predisporre norme dirette ad “assicurare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell’ambito dei rapporti i lavoro, in particolare per finalità di esercizio e godimento, individuale o collettivo, dei diritti e dei vantaggi connessi al lavoro”.



L’interpretazione che la giurisprudenza di legittimità ha dato nel tempo della menzionata normativa (in particolare all’art. 24 del codice della privacy, non conoscendosi ancora pronunce sulla recente normativa introdotta con il Gdpr) trova un primo importante arresto nella sentenza dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 3034/2011. Con quella sentenza, resa peraltro in materia civile (e non di lavoro), la Corte Suprema aveva rilevato che occorre “bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio”.

Ma negli anni successivi non sempre la stessa Corte Suprema ha proceduto in linea con il principio appena segnalato. Ad esempio, e limitandoci agli ultimi anni, particolare “scalpore” hanno suscitato due sentenze con le quali la Corte di Cassazione, a distanza di pochi giorni, è pervenuta a decisioni diametralmente opposte.

Con una prima sentenza del 10 maggio 2018 n. 11322, gli Ermellini hanno infatti ritenuto legittimo il comportamento del lavoratore che nel corso dell’orario di lavoro aveva registrato alcune conversazioni intrattenute con i propri colleghi all’insaputa di quest’ultimi, e aveva quindi dichiarato illegittimo il licenziamento intimatogli per quel motivo. Senonché, sei giorni dopo, con sentenza del 16 maggio 2018 n. 11999, la Suprema Corte ha confermato la decisione di una Corte di Appello che aveva ritenuto illegittima, per violazione delle regole sul consenso, la condotta del dipendente che (anche in questo caso) all’insaputa di un collega e di un proprio superiore gerarchico aveva registrato alcune conversazioni al fine di sporgere una querela per un presunto mobbing attuato nei propri confronti.

Recentemente, però, con sentenza n. 12534 del 10 maggio 2019, la Cassazione ha fatto “retromarcia”, tornando ad applicare il principio secondo cui è legittimo il comportamento del lavoratore che registra i propri colleghi “a loro insaputa”. Nel caso trattato dalla Suprema Corte, il lavoratore aveva censurato la sentenza di secondo grado per “avere [quest’ultima] ritenuto che le registrazioni effettuate dal lavoratore di colloqui con i colleghi rientrassero tra le condotte non consentite” laddove invece, “alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità, la registrazione di una conversazione all’insaputa dell’interlocutore deve ritenersi legittima e validamente utilizzabile in sede processuale qualora necessaria per tutelare e far valere un diritto in sede giudiziaria“.

La Corte ha dato ragione al lavoratore e ha affermato di dover dare continuità alla propria giurisprudenza secondo la quale “l’utilizzo a fini difensivi di registrazione di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e delle tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio”. Secondo la Corte, da ciò consegue “che è legittima … la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto”.

Nota bene: ciò non significa legittimare “a prescindere” (come diceva Totò) le registrazioni effettuate di nascosto, perché la stessa Corte Suprema (già nei fatti dal lontano 2011) ha segnalato che la verifica della correttezza della condotta di chi registra deve essere sempre valutata caso per caso. La giurisprudenza degli ultimi anni ha infatti insegnato che non è sufficiente invocare un generico diritto alla difesa del lavoratore per giustificarne le registrazioni. Un conto infatti è la circostanza in cui viene a trovarsi il lavoratore che, dopo aver ricevuto l’ennesima vessazione, registra ciò che i colleghi o il datore di lavoro sono soliti dire nei suoi confronti; e tutt’altra, ben diversa, situazione è quella nella quale il lavoratore registra le conversazioni che avvengono nel proprio ambiente di lavoro in via del tutto preventiva, nell’attesa che accada qualcosa dalla quale potrà (se del caso) in futuro tutelarsi, magari anche provocando il proprio interlocutore.