Come ogni tormentone che si rispetti, ritorna puntuale quello della privatizzazione della Rai, un argomento talmente frusto e abusato che non si comprende come mai i giornali ne parlino. A seguire i retroscena dei soliti ben informati un motivo lo si scopre: viste le esternazioni tutt’altro che filogovernative di Marina e Piersilvio Berlusconi, si ritiene che Giorgia Meloni abbia voluto mandare loro un avvertimento piuttosto significativo. Dato che Forza Italia vive grazie al loro sostegno, una privatizzazione della Rai potrebbe provocare un enorme scossone al mondo della pubblicità con gravi ritorsioni sul fatturato di Mediaset.



Perché? Perché se la Rai venisse messa in grado di agire liberamente sul mercato, senza canone ma senza più vincoli alla raccolta pubblicitaria, per il noto principio dei vasi comunicanti, la raccolta di Mediaset subirebbe assai gravi flessioni.

Se fosse davvero così, c’è da domandarsi a che livello è sceso il confronto politico.



Innanzitutto una privatizzazione del genere richiederebbe un consenso assai vasto, mentre è noto che i partiti non intendono rinunciare né a posti importanti, né a strapuntini, e nemmeno a quei ridicoli spazi di pochi secondi nei tg dove tutti indistintamente si esercitano ogni sera in dichiarazioni altisonanti sui meriti del proprio partito.

Ma poi, che cosa si privatizzerebbe? Dal 1998 al 2002 ho fatto parte del CdA della Rai, ed effettivamente – c’era al governo Massimo D’Alema – il DG di allora PierLuigi Celli avviò la famosa divisionalizzazione che doveva fungere da prodromo della privatizzazione. Caduto il Governo D’Alema, ritornò al Governo Silvio Berlusconi, e ovviamente il progetto fu di gran corsa dimenticato.



C’è un grande nodo che non è mai stato sciolto: su oltre 13.000 dipendenti, più di 4.000 fanno parte della Divisione Produzione: dipendenti che lavorano impegnando spazi, macchine, tecnologie e strutture comuni per tutte le reti e tutti canali. Un groviglio inestricabile, se ci aggiungiamo pure le sedi regionali. Hai voglia a dividere i programmi di Servizio Pubblico da quelli più commerciali, dato che oggi si fa davvero fatica a distinguerli, visto che – come ho denunciato spesso da consigliere – per inseguire audience e share la Rai si era già messa da molto tempo tempo a inseguire le reti commerciali.

Anche la sola idea di far entrare dei privati con una quota di minoranza provocherebbe terremoti esterni ed interni. Un investitore privato perseguirebbe per natura la redditività, ed ecco ritornare fuori il problema della pubblicità: quale privato accetterebbe di muoversi sul mercato con le mani legate dietro la schiena?

Vorrei poi vedere cosa succederebbe nel caso di una due diligence sull’operatività di dipendenti in gran parte assunti dietro raccomandazioni e pressioni politiche. Come dimenticare l’aforisma che circolava tra i vertici Rai ai tempi della Prima Repubblica “Dobbiamo assumere un democristiano, un socialista, un comunista. E poi uno bravo”?

In realtà di persone in gamba ce ne sono, sparse per il grande corpaccione. Ricordo che dopo aver passato quattro anni nel Cda riuscii a farmi nominare Amministratore delegato di Rainet che avevamo creato su mio impulso, ma che era rimasta una scatola vuota. La cosa non fu difficile dato che non c’erano grandi appalti da gestire, né soubrette da sistemare, e soprattutto nessuno sapeva cosa fosse internet e cosa c’entrasse con la Rai. Bene, quatto quatto, senza dare troppo nell’occhio, riuscii a concentrare in quella piccola società partecipata i migliori ingegneri, i collaboratori più avanzati, appassionati e visionari, e un po’ di risorse per le macchine iperspecializzate che ci servivano. Tant’è vero che il soprannome di cui Rainet venne ben presto accreditata fu “il Sottomarino tutto rosa”, che era il protagonista del film “Operazione sottoveste” con Cary Grant in veste di comandante e Tony Curtis nelle veci di un disinvolto ufficiale al dettaglio, capace di procurarsi in maniera spesso poco ortodossa i pezzi di ricambio per mettere in grado una vecchia carretta destinata alla demolizione di riprendere il mare.

Quando presi il comando, tutti i programmi che volevano si facevano il loro sitarello, con fornitori esterni e sistemi operativi completamente diversi. Dopo aver fatto i primi progetti di successo, tutti corsero a servirsi da Rainet nonostante non ci fosse mai stata una indicazione ufficiale dei Cda. Quando lasciai nel 2008, dopo cinque anni di appassionato lavoro, c’erano 450 siti gestiti centralmente, con un aumento esponenziale degli utenti unici e oltre 30 milioni di video caricati sulla tv on demand.

Oggi il sottomarino tutto rosa è diventato Raiplay, una delle punte più avanzate di tutto il Gruppo Rai. Segno che, volendo, anche in Rai si possono perseguire efficacia ed efficienza. Ma temo che si sia trattato di un caso irripetibile.

Chissà, magari a qualcuno verrà in mente di metterla sul mercato – pur sapendo che non è possibile – con l’intento di agitare un po’ le acque.

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