Il Governo italiano starebbe studiando la cessione di una quota del 29,26% di Poste italiane che, ai valori di ieri, varrebbe circa 3,8 miliardi di euro. La cessione rientra nel piano di dismissioni indicato nella Nadef, per un totale di poco più di 20 miliardi di euro, per il prossimo triennio. Sullo sfondo ci sono gli obiettivi europei di contenimento del deficit.
Poste italiane è un gruppo in cui ormai i servizi postali rappresentano una parte trascurabile del risultato operativo. Nei primi nove mesi dell’anno i servizi postali in senso stretto hanno rappresentato meno del 10% dell’utile operativo; più del 90% è arrivato invece dai servizi assicurativi, da quelli finanziari e dai servizi di pagamento. Poste Italiane è inoltre il principale detentore di debito pubblico italiano per circa 130 miliardi di euro. Dopo la cessione del 29,26%, oggi detenuta dal ministero dell’Economia, rimarrebbe la quota del 35% detenuta da Cdp.
L’importo che lo Stato potrebbe incassare dalla cessione rappresenta circa lo 0,1% del debito pubblico italiano che cresce anche negli anni buoni per un importo che è almeno dieci volte la cifra che verrà incassata con la cessione. La vendita del 29% di Poste italiane lascia il debito pubblico italiano sostanzialmente invariato e determina, nella migliore delle ipotesi, un piccolo beneficio temporaneo.
Le azioni Poste italiane, secondo le ultime stime degli analisti, offrono un rendimento da dividendo superiore al 7%. L’operazione per lo Stato italiano sarebbe in perdita fin dal primo giorno: pur di non pagare il 4% di costo su un titolo di stato a dieci anni rinuncia a incassare il 7% sullo stesso importo. Dal punto di vista finanziario l’operazione non ha senso né per la riduzione del debito pubblico, né in ottica di risparmio del costo debito.
C’è poi una questione strategica perché Poste italiane riveste un ruolo chiave nel sistema finanziario italiano, per i risparmi delle famiglie e come principale detentore del debito pubblico. Negli ultimi anni in Europa si è registrato un fenomeno contrario da parte dei Governi che hanno spesso scelto di migliorare la presa sui settori ritenuti strategici: energia, banche e assicurazioni su tutti.
Spostiamo il giudizio al livello dell’Europa. In una comunità di Stati sempre più uniti, per rispondere alle sfide geopolitiche ed economiche attuali, non si comprende chi abbia interesse ad appoggiare un’operazione che non migliora il “debito pubblico italiano”, né le prospettive finanziarie dell’Italia. L’Italia sarebbe più debole economicamente dopo la cessione. Nemmeno i creditori potrebbero dirsi particolarmente contenti dato che rimangono esposti verso un debitore, lo Stato italiano, che dal giorno dopo la cessione non avrà cambiato praticamente di nulla la sua posizione, ma in compenso verrà privato di un bene che genera ritorni superiori al costo del debito.
L’unico senso potrebbe essere quello di mostrare un generico impegno a tenere i conti in ordine. Si potrebbe sposare questa tesi se la storia delle dismissioni italiane fosse diversa da quella che è stata. Nella realtà, invece, nessun Paese europeo si è nemmeno lontanamente spinto, in termini di dismissioni, dove si sono spinti i Governi italiani negli ultimi decenni. Persino lo spazio aereo italiano, caso unico al mondo, è stato privatizzato. Ci si può anzi chiedere se le privatizzazioni italiane siano una concausa della traiettoria del debito pubblico italiano e dei suoi deficit. Il caso di Poste italiane, con un rendimento da dividendo ben superiore al costo del debito, legittima questo sospetto.
Se le regole del gioco “europeo” sono quelle che determinano queste dismissioni sarebbe forse meglio proporre delle patrimoniali piuttosto che la vendita dell’argenteria. Nel primo caso, almeno, si porrebbero le condizioni per una presa di coscienza collettiva sull'”Europa” o sulla reale situazione delle finanze italiane o, infine, sulle regole speciali che si applicano al nostro Paese.
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