Non è assolutamente chiaro se martedì la Commissione europea darà il via libera alla procedura d’infrazione o se la decisione, che in ogni caso spetta ai ministri economici e finanziari, slitterà a ottobre. Il presidente del consiglio Giuseppe Conte e il ministro dell’economia Giovanni Tria dal G20 di Osaka si sono mostrati fiduciosi di aver convinto sia il Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, sia il Presidente del Consiglio Donald Tusk che il deficit pubblico è migliore del previsto. Secondo il ministro Tria, infatti, il disavanzo 2019 non sarà al 2,5% del Pil, come nelle ultime previsioni della commissione, ma al 2,1%. Il vero buco nero riguarda il 2020 e servono almeno 40 o 45 miliardi che non si sa come trovare. Tuttavia i conti sul 2020 verranno fatti nella Legge di bilancio, di qui la richiesta di un rinvio a ottobre. Il Governo lo considera un piccolo successo, ma siamo davvero sicuri che sia un bene?



Il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti dice che “se questo è un escamotage contro la flat tax, allora non ci sta bene”. Il punto non è solo questo: è che un rinvio finisce per caricare sulla prossima Legge di bilancio un peso enorme, eccessivo, trasformandola in una vera e propria ordalia.

Come stanno i conti pubblici di qui a ottobre? È vero che la spesa per quota 100 e reddito di cittadinanza è stata sopravalutata. Ma il processo è ancora in corso. Il ministro dell’Economia spera che le entrare diano una mano, tuttavia secondo l’Osservatorio dei conti pubblici presso l’Università Cattolica di Milano, nei primi quattro mesi le entrate tributarie sono cresciute solo dell’un per cento, mentre quelle contributive calano del 2,1 per cento. Più in generale, “le due questioni chiave del 2019 non sono finanziate”, scrivono Giampaolo Galli e Lorenzo Codogno.



Nel 2019 formalmente sono state coperte con molti rinvii di spese e anticipi di imposte, quindi spostando tutto agli anni successivi. Nel 2020 e 2021, la copertura è rappresentata principalmente dagli aumenti dell’Iva previsti nelle clausole di salvaguardia che per il Governo e per il Parlamento non devono essere messi in atto. Si è persa ogni traccia di quattro azioni fondamentali che potrebbero migliorare la prospettiva dei conti pubblici: la spending review, la riduzione delle spese classificate come dannose per l’ambiente, il disboscamento delle spese fiscali e le privatizzazioni iscritte nel bilancio 2019 per ben 18 miliardi.



Il Governo conta di ricorrere ad alcune scorciatoie per il 2019: il dividendo della Cassa depositi e prestiti pari a circa un miliardo e parte dell’assegno che la Banca d’Italia ha versato al Tesoro, pari a 5,7 miliardi, più dei 3,9 miliardi versati l’anno precedente. Più il contenzioso con Gucci che pagherà al fisco un miliardo e 250 milioni per imposte non pagate sulle attività italiane. Si tratta di poste straordinarie che non corrispondono alla vera richiesta di Bruxelles, cioè una riduzione del deficit strutturale, cioè al netto degli interventi una tantum e delle variazioni del ciclo economico. Il Governo si era impegnato per un taglio dello 0,3% che non è stato realizzato. Se mettiamo insieme 2018 e 2019, si arriva a uno scarto dello 0,7%, pari a 12 miliardi. La Commissione non chiede di tappare il buco integralmente, vuole una correzione tra lo 0,2% e lo 0,3% del Pil, cioè da 3,6 a 4,8 miliardi, però non si accontenta di finanza creativa. Invece è esattamente quel che il Governo sta cercando di fare.

L’altro consistente intervento straordinario può riguardare l’oro di Banca d’Italia. Sono duemila 451 tonnellate il cui valore supera i 90 miliardi di euro. Ma davvero si potrà mettervi mano? Esiste una proposta di legge della Lega per stabilire che le riserve diventino di proprietà dello Stato: la Banca d’Italia dovrebbe continuare a tenerle nei suoi forzieri agendo in modo esclusivo in qualità di depositario. Mario Draghi nel parere inviato al presidente della Camera Roberto Fico sostiene che la banca centrale nazionale deve avere la libertà di gestirlo nel modo migliore. In ogni caso non può certo essere usato per finanziare la spesa corrente. Lo stesso vale per le privatizzazioni.

L’idea che circola non è vendere sul mercato le quote in mano al Tesoro, ma di passarle alla Cassa depositi e prestiti, si tratta dunque di false partecipazioni anche se sul piano contabile potrebbero portare 23 miliardi. Il pacchetto più consistente in termini di valore è quello dell’Enel (il 23%) seguito da Leonardo (30%). Il Monte dei Paschi di Siena del quale il Tesoro possiede il 68% è incedibile nelle condizioni attuali (la Cdp non può entrare in aziende in perdita). Poi ci sono le società con strumenti finanziari quotati come le Ferrovie o la Rai e una serie di non quotate (la maggiore è la Stm Microlectronics della quale la Cdp detiene già il 28%). Ma non darebbero grandi frutti. Sono poste straordinarie utili anche se poche gocce nel mare dei 2.300 miliardi di debito pubblico, ma non cambiano i fondamentali, a cominciare dalla crescita.

Il prodotto lordo nominale cresce meno del costo del debito mettendo in pericolo la solvibilità dell’Italia a meno di non migliorare il disavanzo strutturale, cioè al netto degli interventi anti-congiunturali. E questo si fa riducendo le spese e aumentando le entrate. Niente magheggi, niente scappatoie. Sarebbe meglio, dunque, andare avanti per gradi, aggiustare i conti per quest’anno e trovare per l’anno prossimo le risorse per coprire scelte realistiche, il tempo della demagogia è finito.

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