PROCESSO ALBERTO CUBEDDU A UN GIORNO IN PRETURA
Non c’è stato alcun depistaggio nelle indagini sugli omicidi di Gianluca Monni e Stefano Masala, che hanno portato al processo sul caso dei delitti in Barbagia, oggi al centro di “Un giorno in pretura“, e che si è concluso con le condanne di Alberto Cubeddu all’ergastolo e di Paolo Enrico Pinna a 20 anni di carcere. Non ci sono state neppure dichiarazioni estorte, a differenza di quanto dichiarato da Cubeddu, il quale ha sempre sostenuto di essere stato incastrato da un testimone che, a suo dire, sarebbe stato pilotato dai carabinieri.
Partiamo, dunque, dalla fine per ricostruire una vicenda complicata che riguarda giovani vittime e assassini. Dunque, il fascicolo aperto quattro anni fa a carico di un investigatore dell’Arma è stato archiviato. Questa la coda di un caso che sembrava esser stato chiuso con la conferma da parte della Cassazione della condanna all’ergastolo del 25enne di Ozieri considerato responsabile del duplice omicidio insieme al cugino.
Il processo ha stabilito che i due cugini nel 2015 a Orune uccisero con tre colpi di fucile Gianluca Monni mentre era alla fermata del bus per andare a scuola, mentre la sera prima avevano ucciso Stefano Masala (il cui corpo non è stato mai ritrovato) e usato l’auto di quest’ultimo il giorno dopo per far ricadere addosso a lui i sospetti del delitto di Monni.
DUE OMICIDI PER UNA VENDETTA
Il caso dei delitti in Barbagia poteva far pensare a una connessione con una delle faide decennali che aveva insanguinato questa terra, in realtà è poi emerso che erano frutto di un desiderio di vendetta per un alterco da parte di un minorenne che si è fatto aiutare da un cugino. I due omicidi erano inizialmente inspiegabili e all’apparenza privi di un legame, ma il processo ha stabilito che furono compiuti dopo una lite scoppiata a Orune durante una festa, in cui Enrico Pinna fu offeso e picchiato.
Quindi, per gli inquirenti Stefano Masala era stato prima sequestrato per essere privato dell’auto con cui poi doveva essere ucciso lo studente di Orune, poi è stato ucciso per far ricadere la responsabilità dell’omicidio su di lui. “Non ho ucciso nessuno, non avevo motivo di fare del male a nessuno“, ha invece sempre dichiarato Alberto Cubeddu, che si è sempre proclamato innocente. Ma i giudici non gli hanno creduto, anche per via della cosiddetta “convergenza del molteplice“, in base alla quale tutti gli indizi hanno portato a lui.
IL PROCESSO E LE CONDANNE PER I DUE DELITTI
La svolta investigativa arrivò un mese dopo l’omicidio di Gianluca Monni, col cerchio stretto attorno a due giovani, un 17enne e il cugino 19enne. Gli inquirenti scoprirono che Paolo Enrico Pinna mesi prima aveva rivolto degli apprezzamenti pesanti nei confronti della fidanzata di Monni, il quale era intervenuto per difenderla. Gli fu puntata una pistola in faccia, ma visto che non era solo, gli amici riuscirono a disarmare Pinna e poi lo picchiarono.
La vicenda sembrava chiusa quando il padre del ragazzo si presentò a casa di Monni per chiedere la restituzione dell’arma, ma girò una filastrocca in sardo in chat che Pinna percepì come uno sberleffo nei suoi riguardi. Da qui il desiderio di vendetta culminato con due omicidi.
Pinna è stato condannato a 20 anni di carcere dalla giustizia minorile e ha tentato la fuga durante la detenzione, mentre il cugino è stato condannato all’ergastolo. “Non sono stato io!“, aveva urlato Alberto Cubeddu dopo la sentenza d’appello, ma le motivazioni di quella sentenza, che confermava l’ergastolo già comminato in primo grado, erano granitiche: le prove avevano permesso ai giudici di stabilire oltre ogni ragionevole dubbio che Cubeddu aveva concretamente partecipato alla ideazione e realizzazione del duplice omicidio, in concorso col cugino. La Cassazione ha ritenuto valida tale sentenza rendendo definitiva la condanna.