È iniziato il conto alla rovescia sul fronte della riforma della giustizia. La ministra Cartabia ha avviato un giro di consultazioni dei distretti giudiziari, partendo da quello di Milano, senza lesinare metafore e avvertimenti. La sensazione è che si sia, opportunamente, voluto alzare l’attenzione di tutti gli addetti ai lavori sulla imprescindibilità di una veloce chiusura del cantiere giustizia e non a caso, evidentemente, si è voluto evocare il modello Genova per la ricostruzione del ponte Morandi, invitando avvocati e magistrati a non difendere lo status quo.



Mettere mano alle riforme in tema di giustizia è sempre stata impresa ardua. Prima di arrivare alla riforma del codice del 1988, vari furono i tentativi falliti, basti ricordare i progetti del 1974 e del 1978, travolti dal terrorismo rosso. La congiunzione astrale che possa favorire il varo di una vera e complessiva riforma della giustizia penale è evento raro. Stavolta ci sono in ballo però i fondi del Recovery e come stimolo non sembra di poco conto. In cinque anni dobbiamo, senza poter usare condizionali di stile, abbattere del 25% i tempi dei procedimenti penali rispetto al 2019 e dobbiamo abbattere del 40% i tempi di definizione del processo civile. L’abbiamo scritto all’Europa e siamo stati anche creduti, ora non possiamo far finta di niente e buttarla in caciara.



Lasciamo per questa volta in disparte il fondamentale e imprescindibile tema del Csm e concentriamoci unicamente sulla riforma del processo penale. Abbiamo letto la relazione depositata dalla commissione ministeriale e sappiamo che gli emendamenti al disegno di legge delega sul processo penale saranno a breve all’attenzione del Consiglio dei ministri, dopo intense settimane di quella che viene chiamata sintesi politica.

Non possiamo che apprezzare l’impegno e gli sforzi che la ministra e il gruppo di lavoro stanno profondendo; Cartabia ha senz’altro ragione quando sottolinea come le critiche non devono prevalere per interessi personali e di categoria; coglie nel segno quando mette in guardia su una sterile difesa dello status quo; alcun dubbio sul fatto che l’obiettivo dei fondi europei non può essere mancato; va apprezzata la piena consapevolezza circa il fatto che tutte le riforme sono imperfette e tutte le riforme disturbano perché i cambiamenti disturbano; pienamente condivisibile quindi la richiesta rivolta ai magistrati e agli avvocati su una seria assunzione di responsabilità, accompagnata dall’impegno che la riforma non sarà scritta da una sola mano ma con la disponibilità di tutti per ridare credibilità alla giustizia italiana e fiducia ai cittadini.



Siamo sinceramente un po’ meno convinti di trovarci in presenza di una riforma molto profonda che va a incidere su punti nevralgici della procedura penale, come dichiarato dal guardasigilli.

Prevale, sperando di essere smentiti, la sensazione che si possa solo agire di fioretto, con ritocchini di contorno senza agire sulla struttura. I nodi sono ben noti, prima di tutto quello sulla prescrizione. Se si ritiene che i tempi delle indagini siano eccessivi, tanto da ridurli, opportunamente, anche più opportuno sarebbe prevedere contestualmente sanzioni processuali in caso di ingiustificate stasi del procedimento. Le soluzioni proposte sulle fasi di appello e Cassazione paiono poco efficienti in fatto di riduzione dei tempi e troppo penalizzanti sul fronte delle garanzie. Forse si poteva ragionare di più sulla struttura complessiva del processo.

Ad esempio, nei sistemi accusatori in cui sono davvero alte le garanzie in fase processuale, le impugnazioni sono residuali e seppur si volesse conservare il grado di appello, si poteva ragionare sulla monocraticità in modo da triplicare la capacità di smaltimento del contenzioso ordinario.

Restiamo anche convinti che ora come ora la fase dell’udienza preliminare sia soverchia, marginale, assai poco efficace. Sugli aspetti di merito si potrebbe discettare a lungo e di certo una vera discussione sulla struttura del processo avrebbe impiegato molto più tempo per essere messa a punto. Però l’occasione che si sta presentando resta irripetibile e questo genera un po’ di rammarico. Nulla di grave, per carità.

L’importante è che si scongiuri la paura che più che il ponte di Genova si possa mutuare le vicende del ponte sullo Stretto. Come ha detto la ministra, c’ è una grande impresa da portare avanti e in queste occasioni il Paese sa dare il meglio di sé, sa mettere a frutto le sue grandi risorse. Facciamo allora tutti il tifo e non solo per l’Italia calcistica.

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